Nils Lofgren. Il ragazzino che saltò in groppa alla Cavallo Pazzo di Neil Young ai tempi di After The Gold Rush (1970). Il rocker di seconda linea a capo dei Grin e poi in versione solista. Il folletto abituato a stadi e arene in giro per il mondo con la E Street Band di Bruce Springsteen. Ignoto ai più, esiste anche quello che sul finire degli Anni ‘70 capitò, invero abbastanza per caso, a collaborare con Lou Reed. Ed è qui che nasce e prende forma Blue With Lou, il nuovo album del buon Nils. Narrano le cronache, per noi che non eravamo lì nel 1978, che tutto sia nato grazie al produttore Bob Ezrin (Pink Floyd, Alice Cooper, Peter Gabriel, Phish) e al chitarrista Dick Wagner, già sodali di Reed in Berlin (‘73), i quali stavano lavorando con il chitarrista all’album Nils (‘79). I 2 spingono Lofgren a incontrare l’ex Velvet Underground, cui viene affidato un nastro con una dozzina di musiche da completare con le liriche. Passano giorni e settimane di attesa, fin quando una notte Lofgren riceve una telefonata da Reed, dove gli vengono dettate una per una le parole dei pezzi. Così nasce l’improbabile team compositivo Lou Reed-Nils Lofgren.

Quei pezzi faranno una fine spezzettata: 2 finiranno nel disco di Nils cui stava lavorando con Ezrin/Wagner, 3 in The Bells (’79) di Reed, qualcun altro in dischi successivi del chitarrista come Damaged Goods (‘95) e Breakaway Angel (2002) e ben 5 resteranno inediti – fino a oggi. Ricostruita la storia, adesso tocca dare un responso sul progetto e, francamente, non è molto positivo. Il sound di un po’ tutto Blue With Lou è monotono, mentre la voce di Nils, che non è mai stata esattamente un’arma impropria, pare proprio ai minimi storici sia per estensione sia per espressività. Apprezzare l’operazione per mero amore nei confronti di Lou Reed può anche essere il parafulmini del disco, ma qualche solido dubbio sorge se ascolti un brano come City Lights, che in The Bells suonava come un gran spoken jazz con tocchi adombrati proto hip-hop (e con tanto di Don Cherry alla tromba): qui diventa un reggae banalotto, che ascoltandolo speri finisca in fretta. E saltando qui e là fra le varie Attitude City, Cut Him Up, Don’t Let Your Guard Down oppure Talk Thru The Tears, tutto sa di ordinario se non anche di scialbo, aggettivi che con Lou Reed non hanno mai avuto nulla a che spartire.

Domanda che sorge spontanea: questi brani sono stati incisi anche dal NYC Man? Chissà se un dì usciranno, dovessero esistere davvero. Il brodo, fra l’altro, è allungato anche da qualche numero che esula dalla collaborazione Lou-Nils. Passi per il brano guida, rockettone muscoloso e sincopato comprensibilmente in onore di Reed, il resto è poca cosa che gli americani chiamerebbero “filler”, riempitivi – cose tipo Dear Heartbreaker,  dedicato a Tom Petty su un riff trito e ritrito; e Remember You, scontata elegia molto springsteeniana questa volta dedicata al cane scomparso di Lofgren (vietato sogghignare, anche se siete dei loureediani spinti e convinti).