Ogni decennio ha un inizio, un apice e chi lo chiude – o magari lo spazza via. Gli anni 90 americani, quelli della Generazione X, del grunge, dei Nirvana, di Jeff Buckley, del lo-fi, del DIY, di Chris Whitley, dei Phish, della frenesia Morphine, dei Pearl Jam, dei R.E.M. che da crisalide college rock anni 80 sfidano gli U2 nelle classifiche mondiali, di esseri mutanti come Eels–Jon Spencer Blues Explosion–Primus, del Lollapalooza che raduna folle oceaniche, dei Weezer, della Dave Matthews Band, di Medeski Martin & Wood, dei Widespread Panic, dei Beastie Boys e dei Guns N’ Roses al potere, dei Metallica che diventano mainstream. Un lasso temporale contorto che ne ha avute per tutti i gusti. E sul finire del decennio, coincidenza delle coincidenze, arrivano le 2 band che idealmente archiviano un po’ tutto ed esordiscono proprio nella tarda primavera del 1999 gettando una specie di opa sul futuro: sono i My Morning Jacket e i White Stripes, i 2 gruppi che poi caratterizzeranno più d’ogni altro il nuovo Millennio USA: gli Stripes con un successo bombastico che straccia le classifiche, sebbene la musica resti cristallinamente integra; i Jacket con quel mood più sleeper che, peraltro, ha distinto classiche formazioni di diversi lustri addietro come Grateful Dead, The Band e Little Feat, gente che ha conquistato il successo più sul campo che attraverso i media.
20 anni dopo, pare giusto che l’esordio dei MMJ meriti un’edizione deluxe, come a marcare il territorio ma anche a sottolineare che quel disco fu un grande album, inaspettato ma tuttora splendente. A fare un rapido check della memoria, interessante notare come i My Morning Jacket di The Tennessee Fire quando apparvero furono velocemente “sistemati” in uno dei fermenti 90s più caldi, quel post-rock che aveva nei vari Cul de Sac, Tortoise, Labradford, Gastr del Sol, June Of 44 e Godspeed You! Black Emperor i nomi chiave. In verità, la storia ha provato la formazione del Kentucky come qualcosa di decisamente diverso: il post-rock è stato solo tangenziale, mentre cuore e anima del gruppo in realtà si sono dimostrati tratteggiati di country progressivo e The Band, di fiabesco-psichedelici orizzonti che chiamano in ballo sia i Genesis di Peter Gabriel sia i Pink Floyd più onirici e unplugged prima de Il lato oscuro della Luna.
The Tennessee Fire è un disco che ha retto benissimo questo ventennio passato e, anzi, col tempo sembra aver acquistato ancora più spessore e gusto. Solita storia del vino che più invecchia e più migliora, dicono. Gran parte del lavoro fu registrato in situazioni di fortuna, tipo il garage improvvisato a studio del cugino del leader, Jim James, con pochi numeri dei 16 in scaletta incisi in uno studio professionale, nella fattispecie gli Ultrasuede Studios di Cincinnati in Ohio – il tutto per un risultato accattivante che unisce soul e lo-fi, musica rurale e sfumature post-rock. Il protagonista (quasi) assoluto è naturalmente James, performer e songwriter che già allora mostrava grandi numeri, grazie anche a una voce che a dir poco è una vera “arma impropria”, forse la più bella apparsa negli ultimi scorci di rock – oggetto miracoloso che in un sol colpo sa mettere insieme Jerry Garcia e il già citato Peter Gabriel, Curtis Mayfield e Marvin Gaye, come pure i “tre tenori” di The Band ossia Levon Helm, Rick Danko e Richard Manuel. Ne vengono fuori veri gioielli che restano classici dei MMJ come Butch Cassidy, con spettacolari vortici vocali; Heartbreakin Man, potente e roots nel contempo; The Bear, perfetta nel tono contemplativo e altrettanto percussivo del beat solenne che ne detta i tempi; By My Car, numero acustico essenziale e toccante; I Think I’m Going To Hell, 5 minuti tesissimi e vibranti; fino al capolavoro They Ran, uno dei brani che per primi bisognerebbe far sentire a chi voglia addentrarsi nel lavoro a tratti geniale di James, soul decostruito con stile spoglio ma complesso – tirare in ballo il divino Curtis e i suoi Impressions non è peccato.
Dopo un paio di Ep come Does Xamas Frisco Style e Heartbreakin Man, entrambi del 2000, i primi MMJ chiuderanno la prima fase del loro intricato iter musicale con At Dawn (2001), disco ”gemello” di The Tennessee Fire – un po’ come lo furono i primi 2 album di The Band (Music From Big Pink e The Band) oppure i 2 dischi del 1970 dei Grateful Dead (Workingman’s Dead e American Beauty). Chissà se fra un paio d’anni anche At Dawn, forse il loro lavoro più bello, non meriterà anch’esso un trattamento deluxe come l’esordio. Chi vivrà, vedrà.
Ma veniamo al materiale inedito. Il 2° Cd raccoglie inediti nonché incisioni rough in qualche caso differenti in modo radicale dai pezzi poi finiti nell’album, per un totale di una quindicina di brani dal sapore estroso ma pure molto canteen, dove spiccano Flew In On A Dead Horse Va e Weeks Go By Like Days, quest’ultimo con un arpeggio di chitarra degno della prima Dave Matthews Band. Va anche detto che il tutto è stato curato in prima persona da James, maniacale nella selezione – tratto che denota anche molto rispetto per il suo pubblico. Lo stesso rispetto che probabilmente smosse James Agren, il Boss della Darla Records, che un giorno si ritrovò nella cassetta delle lettere 1 nastro spedito da tal Jim James di Louisville, Kentucky: «Messa su la cassetta non ho potuto che innamorarmi immediatamente della musica dei My Morning Jacket». Dopo di lui negli anni sono arrivati milioni di fan nonché illustri estimatori quali Bob Dylan, che li ha voluti con sé nel festival itinerante Americanarama; oppure Roger Waters, che i ragazzi del Kentucky hanno avuto l’onore di accompagnare dal vivo. Ma questa è già storia – The Tennessee Fire invece è la scintilla che, non vi fosse stata, non avrebbe dato il via a una saga che tuttora splende fulgida, quella My Morning Jacket.