È partita la ola, specie online: il nuovo “disco dall’Aldilà” di Leonard Cohen, Thanks For The Dance, non può che essere un capolavoro – obbligatoriamente. Noi però, che siamo sempre un po’ scettici-dubbiosi-perplessi, qualche stranezza la cogliamo – e non di poco conto. Il sacro, eletto Len, da che esordì con Songs Of Leonard Cohen (1967), da una parte è sempre stato un “uomo azienda”, nel senso che si è quasi sempre accontentato di quello che gli ha passato d’ufficio la Columbia, tipo il produttore (Bob Johnston quello chiave) e i musicisti – o, d’altra parte, i musicisti che ha utilizzato furono tutti del suo giro, pressoché sconosciuti ai più se non, appunto, per l’accostamento con il Poeta Cantautore canadese: da Jennifer Warnes a Sharon Robinson fino a Roscoe Beck, alle Webb Sisters, a Perla Batalla e a Javier Mas. Poche le eccezioni: come produttori Phil Spector, Patrick Leonard e, fugacemente per un paio di demo nel 1968, David Crosby; come ospiti di grido Bob Dylan, Allen Ginsberg, i Kaleidoscope (che tuttavia all’epoca del 1° album di Cohen erano pure loro degli esordienti e furono impiegati solo perché sotto l’egida CBS), Julie Christensen (Divine Horsemen) e Ronee Blakley. Poca roba, insomma, se si prende per intero la discografia del Maestro.

Preambolo che ci fa domandare al figliolo di Len, il cantautore Adam Cohen, ma anche al co-produttore Michael Chaves: perché il coinvolgimento di tanti nomi di grido quali Beck, Damien Rice, la già citata Warnes, Daniel Lanois, Bryce Dessner (National), Feist, Richard Reed Parry (Arcade Fire), Patrick Watson, Zac Rae (Death Cab For Cutie) e Dustin O’Halloran (Dévics)? Cose mai viste né sentite – almeno in dischi di Leonard Cohen, artista che se avesse voluto con uno schiocco di dita avrebbe avuto tutto il reame ai suoi piedi. E francamente non capiamo anche perché, ascoltato per bene Thanks For The Dance, tutte queste special guest non lasciano il segno o quasi, sono presenze che non si coglierebbero se non se ne leggesse il nome nei crediti. Operazione forzosa di marketing? Francamente sovviene più di un sospetto – sebbene la presenza impalpabile potrebbe essere una (giusta) scelta voluta. D’altro canto, è bello vedere che Len abbia lasciato un segno così profondo anche in artisti generazionalmente distanti da lui e, fra l’altro, stilisticamente trasversali fra loro.

Come disse in tempi non sospetti il suo peer Bob Dylan, Leonard Cohen è sempre stato un melodista sopraffine e anche qui, sebbene questo sia più che altro un disco di parola ancor prima che di musica, in diversi episodi questo tratto viene fuori – e non poco. Come, per esempio, il singolo apripista Happens To The Heart dov’è circondato (virtualmente, meglio ribadirlo) da Lanois, da Rae, dalla Stargaze Orchestra di Berlino e sopratutto dal Mas con la sua chitarra flamenco – che sembra un recitativo ma nelle frequenze soffuse si coglie una musicalità profonda e insinuante. Stesso si dica per Moving On e per The Night Of Santiago, quest’ultimo pezzo con ospite Beck improbabile alla jew’s harp (da noi si chiama scacciapensieri) e ripreso dall’opera Book Of Longing (2007) di Philip Glass ovviamente ispirata a Len (Book Of Longing era anche il titolo di una raccolta di Cohen edita nel 2006), ancora più marcatamente spanish fra castañuelas e ligado/picado della chitarra – e in fondo fu lo stesso artista scomparso che anni fa, in occasione del Premio Principessa delle Asturie, descrisse la sua musica come un’infinita variazione degli accordi di flamenco imparati da un musicista di strada, incontrato in giovanissima età nella natìa Montreal. Anche lo sparso brano guida, risalente al 2006 e in prima battuta cantato dall’ex compagna-musa Anjani per il suo esordio discografico (che fu prodotto da Cohen – e che bello se un giorno saltasse fuori cantato proprio da Len anche Blue Alert, il pezzo guida di quell’album), mantiene un’armonia nascosta ma pungente – e con un coro, opera dei tedeschi Cantus Domus, che davvero è un tuffo negli anni 60/primi 70 coheniani.

Dal 2016 (quando l’artista scomparve) a oggi, il clima socio-politico è divenuto solo più pesante – immaginiamo che Cohen, dall’alto del suo discernimento, lo avesse già avvertito che la piega presa sarebbe stata questa. Ed ecco che un pezzo dal testo duro come Puppets (chi volesse lo trova anche, solo recitato, in un vecchio, prezioso bootleg intitolato Other Songs Of Leonard Cohen), leggero passo marziale in slow motion nelle note e l’eloquenza di uno sguardo poetico ma disincantato nelle parole: “German puppets burnt the Jews/Jewish puppets did not choose/Puppet vultures eat the dead/Puppet corpses they are fed/(…)/Puppet presidents command puppet troops to burn the land“, recita il testo ispirato all’Olocausto quanto affilato come una lama. Sempre recitati The Goal, con ancora una chitarra flamenco; It’s Torn, con una seicorde sincopata di chiaro rimando country, specie il suo idolo Hank Williams (quello che tossiva tutta la notte un centinaio di piani sopra, nella Torre della Canzone); e l’epilogo Listen To The Hummingbird (“Listen to the hummingbird/Don’t listen to me”).

Per chi proprio non possa resistere e volesse trovare a tutti i costi il capolavoro di Thanks For The Dance, non facciamo mancare il nostro parere. Si tratta di The Hills, in origine un recitato intitolato I Can’t Make The Hills e presente nella già evocata opera Book Of Longing di Glass. Il giovane Adam compie il miracolo: cuce intorno alla voce del padre, contrappuntata dalla perfetta Feist, una musica opaca e in crescendo orchestrale sommessamente spectoriano – numero che incanta a tutti i livelli, specie nel testo che, fra gli altri, regala monili di poesia by Leonard Cohen, fra un “I can’t make the hills/The system is shot/I’m living on pills/For which I thank God/I followed the course/From chaos to art” e un “My will cut in half/And freedom between/For less than a second/Our lives will collide/The endless suspended/The door open wide/Then she will be born“. Tower Of Song garantita, imperituramente per il tempo a venire: nato così, non ha avuto scelta – nato con il dono di una voce d’oro.