È esistito un solo uomo che come produttore potesse rivaleggiare con Phil Spector (nei secondi anni 50 il Tycoon of Teen prese addirittura un aereo da NYC per Phoenix per vedere come diavolo “quel tizio” incidesse i dischi); che come songwriter se la giocasse con Bob Dylan, Gordon Lightfoot e Kris Kristofferson; che avesse un portamento fra Leonard Cohen e Johnny Cash, solo con taglio simpaticamente/cinicamente più stronzo sia di uno sia dell’altro; che come hitmaker non sfigurasse né con Brian Wilson né con i Beatles, vedi la serie d’incredibili successi scritti per (e incisi con) Nancy Sinatra nel cuore dei 60s; che come scopritore di talenti scovò calibri tipo Duane Eddy e (rapporto burrascoso a parte) Gram Parsons; che come icona del jet-set 60s vicino a Ol’ Blue Eyes & Co sia poi diventato uno dei grandi eroi dell’alternative, dalla new wave in avanti (Nick Cave & Mick Harvey, Sonic Youth, Jarvis Cocker, Nirvana, Giant Sand, Beck, Screaming Trees e nonsisaquantialtri sempre in adorazione e “messaggeri del verbo”); che ha inventato la Cosmic American Music, sebbene a chiamarla così poi fu il già citato “figliuol prodigo” GP. Il suo nome era Barton Lee Hazlewood o, più semplicemente, Lee Hazlewood – classe 1929, nato e cresciuto nella sperduta Mannford, Oklahoma, bucodiculo mica troppo lontano da Tulsa, poi culla del Tulsa sound (J.J. Cale, Leon Russell, Jesse Ed Davis, Gus Hardin…). Per chi scrive, giusto per evitare di nascondersi dietro un dito, uno dei grandi americani del ‘900 – roba che per la musica vale Francis Scott Fitzgerald e Ernest Hemingway per la letteratura oppure John Ford e Howard Hawks per il cinema. Senza contare il portamento, tu kùur più che unico.
Eccoci, dunque, al Sacro Graal dell’hazlewoodism che esce per la sempre eccellente Light In The Attic (attualmente la miglior etichetta di ristampe al mondo): 400 Miles From L.A. 1955-56, ossia le primissime incisioni dell’autore di These Boots Are Made For Walkin’ e di Some Velvet Morning – che, in verità qualche anno addietro in parte già uscirono come cassetta (!!!) cotillon sempre per la LITA, solo che ora le cose sono state sistemate a dovere come 2 Cd/2 Lp che mettono sigillo definitivo all’alba hazlewoodiana. Per i più “traviati” esiste anche la versione boxset deluxe con ammennicoli-gadget vari (poster, travel journal e via dicendo). Costicchia ma sembra essere fatta bene fin nell’ultimo dettaglio – come da regola Attic.
Titolo emblematico 400 Miles From L.A. 1955-56. Tentiamo di spiegarci. Una volta Frank Sinatra invitò Jimmy Webb nella sua suite al Waldorf-Astoria, dove dalla finestra si dominava tutta NYC e oltre – «Guarda là in fondo, Jimmy» disse Frank, «quella che vedi è Hoboken, dove sono nato io. Ci vuole molto più tempo a fare la strada da Hoboken che porta al Waldorf-Astoria che quella inversa». Sapienza. Ecco, le 400 miglia sono quelle fra un altro bucodiculo chiamato Phoenix in Arizona e Los Angeles, città che nel decennio di Ike Eisenhower fu la Mecca un po’ per tutto, fra gli Studios hollywoodiani e i best seller discografici della Capitol Records. Già, perché a quell’epoca, in America, mettevi il naso fuori di casa e guardavi sempre a ovest. “‘Cause I headed West to grow up with the country“, cantava GP nel suo canto del cigno, Return Of The Grievous Angel.
Metà anni 50, south-west dell’Unione. Hazlewood ha circa 25 anni – ed è già troppo vecchio per il rock & roll, anagraficamente parlando. Anzi, dopo aver fatto più volte la spola Phoenix-L.A. via Greyhound per farsi mettere sotto contratto da qualche etichetta che puntualmente gli regala un bel niet, sembra proprio che il destino gli sia irreversibilmente avverso. Tolto Chuck Berry, che di anni ne ha 30, i vari Elvis Presley, Buddy Holly, Jerry Lee Lewis, Johnny Cash, Little Richard, Dion, Everly Brothers e via di rosario sono degli assatanati tardo adolescenti che fanno musica per pischelli di 12-13-14 anni. Lee, insomma, sembra essere nato un po’ troppo prima del dovuto. Ma la musica nuova gli piace, eccome, sebbene chi conti davvero non se lo fila: e quindi si inventa disc-jockey (guai a quel tempo a chiamarli DJ!), ruolo che in breve lo fa diventare un mito nelle lande del sud-est sperduto fra i deserti. Il passo che lo porta a fare il produttore, diventando presto una vera leggenda (vedi lo Spector che dicevamo all’inizio…) fra le mura degli studi dell’etichetta Viv – il cui motto è rimasto negli annali: …the hottest sounds come from the edge of the desert.
Come detto, Lee è sempre stato uomo multitasking – va bene fare il disc-jockey, va bene fare il produttore – ed è naturale fare il passo mettendoci la faccia. Dicevamo di Sacro Graal – perché vai a vedere Hazlewood in proprio ha esordito parecchi anni dopo queste incisioni, con l’imperdibile concept album Trouble Is A Lonesome Town (1963) mentre qui siamo al 1955-56. 400 Miles From L.A. è uno dei classici casi dove la storia è riscritta: in quegli anni non esisteva il cantautore, quello che intendiamo pensando a Bob Dylan, a Phil Ochs, a Joni Mitchell o a James Taylor – c’era il rock and roll, c’era il folk, c’era il blues, c’era pure gente come Cash e Holly che le canzoni se le scriveva oltre a cantarle, ma tutto ciò era un’altra cosa rispetto a quanto si sente in queste 24 canzoni, incise con resa sonora nitidissima (meglio ribadire niente di gracchiante che va solo bene per filologi incalliti). Lee, con giusto la chitarra ma anche qualche take con gruppo, infila dei brani strutturati, a proprio modo perfetti e assolutamente compiuti nell’anticipare di un lustro abbondante tante tendenze che avranno molto successo.
A Lady Called Blues, Cross Country Bus, The Woman I Love, la stupenda Five More Miles To Folsom e Fort Worth sono delle porcellane impolverate ma splendenti – che offrono quello che anni dopo racconteranno prima lo scrittore Larry McMurtry e poi il regista Peter Bogdanovich fra le pagine e i fotogrammi di The Last Picture Show/L’ultimo spettacolo: l’America in black & white presa nel cosiddetto coming of age – tipo passare da Mark Twain a Jack Kerouac, dai fratelli Gershwin a Woody Guthrie. In quel Lee Hazlewood vi è tutto questo, con in più l’ironica flemma che ne ha sempre distinto musica e gesta finché egli è campato, quasi 80enne e ancora in piena attività.
La seconda parte di 400 Miles From L.A. è altrettanto rivelatrice. Nientemeno che quasi tutto Trouble Is A Lonesome Town ben 8 anni prima che fosse inciso e pubblicato come lo conosciamo. Versione demo, perfettamente accomodata nemmeno fossero prove di Pete Townshend (e chi ha ascoltato la serie Scoop sa quanto lo Who sia stato maniacale già alla fase demo) – l’album-a-tema molto prima che Johnny Cash, Pretty Things–Kinks–Who o il prog in genere ne facessero propria bandiera. E molto prima di Fabrizio De André/Fernanda Pivano. Già, perché Trouble Is A Lonesome Town è nientemeno che una rivisitazione dell’Antologia di Spoon River (1915) di Edgar Lee Masters adattata da Lee alla sua Mannford, che letterariamente diventa appunto la cittadina di Trouble. Tutto questo, anche qui, ben prima che Non al denaro non all’amore né al cielo (1971) portasse in forma canzone il freak-ame assortito delle varie Un matto (Dietro ogni scemo c’è un villaggio), Un ottico e Il suonatore Jones. Solo che Hazlewood, con assoluto colpo di genio, aggiunge una prospettiva da Vecchio Testamento/Old West che rende davvero grandi e speciali pezzi come Long Back Train, Son Of A Gun, The Railroad, Look At That Woman, Run Boy Run e We All Make The Flowers. E l’incredibile è che qui siamo in pieni 50s. Coming of age, appunto.
Nel 1963, con le stesse canzoni per il debutto vero e proprio Hazlewood chiamerà a sé i Shacklefords guidati da Marty Cooper (il nome del gruppo è preso dal cognome da nubile della prima moglie di Lee, Naomi Shackleford) e sopratutto, giusto per chiudere il cerchio, ad arrangiare l’opera fu scelto il più stretto collaboratore di Phil Spector, naturalmente Jack Nitzsche (Neil Young, Rolling Stones, Buffy Sainte-Marie). Senza dimenticare che a suonare chitarra e armonica fece capolino nientemeno che Billy Lee Riley, uno dei più elettrizzanti sebbene misconosciuti eroi della Sun Records di Sam Phillips (evitando di aprire parentesi infinite, chiedere di Riley a Bob Dylan, a Jimmy Page & Robert Plant e a Gordon Lightfoot – vedrete risplendere i loro occhi). Per chiudere: i più curiosi non dovrebbero farsi sfuggire la rivisitazione di Trouble Is a Lonesome Town uscita nel 2013 per il 50° anniversario, concertato dal famoso produttore Charles Normal con il pèn nèim Thriftstore Masterpiece e con eccellenti performance di bei nomi contemporanei quali Pete Yorn, Isaac Brock (Modest Mouse), Courtney Taylor-Taylor (Dandy Warhols), Eddie Argos (Art Brut) e su tutti un perfettamente calato nella parte Frank Black (Pixies) – messi insieme nel nome di quella città solitaria chiamata Guaio.