Perdonate l’uso della prima persona in questo pezzo-intervista, metodo che tanto tempo fa mi insegnarono a non usare mai salvo che tu sia il direttore del giornale per cui scrivi. Ma questo articolo, un po’ ritratto un po’ intervista, è una questione personale quanto pubblica. Correva l’estate 1990 e, io imberbe adolescente, riesco a convincere papà a portarmi da qualche parte nelle valli bergamasche per vedere dal vivo un musicista scoperto da non molto, che mi aveva folgorato: l’ex Fairport Convention Richard Thompson. Artista che circa 1 anno più tardi sarebbe stato protagonista del mio 1° articolo, pubblicato e regolarmente retribuito, per un quotidiano. Il posto era il per me sconosciuto Gandino, bellissimo borgo della Comunità Montana della Valle Seriana, nel pieno delle Alpi Orobie. Il concerto me lo ricordo come se fosse ieri. E come se fosse ieri ricordo anche che per la prima volta vidi, allora e come sempre tutto preso a far funzionare ogni cosa come un orologio, un signore dall’aria mite che negli anni avrei apprezzato come il miglior promoter di concerti che mi sia capitato di vedere all’opera in Italia: Gigi Brescianigran visir di Geomusic.

Gigi Bresciani con Richard Thompson, Treviglio, 2015

30 anni dopo esatti (e dopo aver visto decine e decine di concerti da lui organizzati un po’ ovunque lungo la Penisola), ecco che Gigi, 66 anni e ripresosi alla grande da un “inconveniente di percorso”, malattia che qualche anno fa lo aveva portato perfino in coma, mi apre le porte della sua casa-museo in quel di Gandino – e quando ti parla, come sempre, è disarmante per semplicità e candore: «Sono un ragazzo venuto su all’oratorio, mio padre era il titolare di un calzificio, il mio disco preferito è Pink Moon di Nick Drake (foto d’apertura, ndr)». Palazzo Bresciani è una vera miniera, dove scopriamo non solo il comparto musica ma anche quello del collezionista di pregiate bottiglie di birra, di arte africana e di trenini/modellini di automobili, forse la più antica delle sue passioni. Ma siamo qui per la musica, perché Gigi dal 1978 a oggi ha fatto qualcosa come 5.000 concerti (un anno il record è stato di 900), dove nel tempo i suoi affezionatissimi clienti sono stati dei numeri 1 come Christy Moore e John Martyn; Andy Irvine e il già ricordato Thompson; naturalmente i restanti Fairport Convention e Four Men and a Dog; Paul Brady e Soft Machine; Caravan e Allan Taylor; Jethro Tull e tutte punte dei Pentangle; Riccardo Tesi e Michael Chapman; Kočani Orkestar (chi si ricorda dischi e concerti di Vinicio Capossela graziati dal gruppo macedone?) e Mary Black; La Bottine Souriante e Mozaik; Altan e valanghe di artisti dell’Est Europa; Dick Gaughan e Hosoo Transmongolia; Hevia e Dando Shaft; Suzanne Vega e Incredible String Band; Mary Coughlan e Chris Jagger; Daniel Lanois e Asleep At The Wheel; Dolores Keane e Pretty Things; Strawbs e Robbie Bǎsho; Donovan e Alan Stivell; Miró e David Bromberg; Jack Hardy e Kathryn Tickell; Peter Rowan e Dervish; Pierre Bensusan e Mauro Pagani; Robyn Hitchcock e Giorgio Cordini; Jenny Sorrenti e Francesco Benozzo; Carlos Núñez e Annie Barbazza.

Il promoter insieme a Daniel Lanois, Piacenza, 2017

Quello che ha contraddistinto Bresciani lungo questi decenni, al di là dei numeri e dei nomi, è un punto ben preciso: la voglia di fare del proprio mestiere anche qualcosa di culturale, tratto che lo distingue nettamente pressoché da tutti i suoi colleghi nostrani. Con Gigi non ho mai visto artisti “buttati allo sbaraglio”, fatti suonare in luoghi improbabili e organizzazione pressapochista – semmai le location sono sempre state di gran pregio, per esempio: auditorium antichi e moderni, teatri fra i migliori che offre il territorio (specie in zona Bergamo e provincia), giardini di ville ultracentenarie, chiostri, chiese, piazze storiche, fino a luoghi assolutamente unici come, fra i tanti, una cantina vinicola risalente al ‘600 ad Almenno San Salvatore (BG) dove nel 2014 si svolse l’ultima, gremitissima esibizione italiana del compianto John Renbourn (Pentangle) – praticamente un’istallazione più che un semplice concerto. E non sto a dire come a molti musicisti, appena nomini il nome di Gigi, letteralmente brillano gli occhi.

Con Jenny Sorrenti

I tempi sono quel che sono ma sarebbe davvero un peccato se tutto ciò andasse perduto, causa indifferenza/negligenza delle istituzioni. Qualcosa come 110.000 dischi fra vinili e Cd (tantissimi con dediche personali all’amico Gigi); centinaia di poster fatti appositamente per gli eventi organizzati (la sua Andar per musica è durata 31 edizioni, per esempio); centinaia di ore fra audio e video registrate sul campo («Sto portando tutto in digitale ma è un lavoro lungo, infatti non sono oltre il 10% del lavoro»); collezioni complete di periodici musicali e vecchie fanzine; scatoloni infiniti di rassegne stampa catalogate alla perfezione; addirittura intere mostre archiviate e pronte all’uso. L’idea sarebbe quella di creare un museo, una fondazione, una mostra-percorso culturale o qualcosa di simile, che metta in risalto un patrimonio di assoluta eccellenza. Perché Gigi Bresciani non è un auto proclamatosi guru come tanti di quelli che parlano e straparlano, bensì semplicemente una grande persona – quelle di cui oggi più che mai abbiamo bisogno.

Gigi, mettiamo subito il dito nella piaga: le istituzioni come hanno reagito alla tua idea di un museo o di una fondazione che preservi la tua, a dir poco, straordinaria storia?
«Prima di tutto voglio precisare che l’eventuale mancanza d’interesse per questo progetto quasi certamente determinerebbe un probabile dissipamento della storia e del patrimonio raccolto negli anni. La prima istituzione interpellata è stata la Regione Lombardia, con l’Assessore per Autonomia e Cultura Stefano Bruno Galli, il quale ha le deleghe per i musei. Egli si è dimostrato interessato, ma richiede una proposta formale da parte di un ente locale o di una fondazione. E così la ricerca è iniziata, indagando tra le amministrazioni locali. Interpellati alcuni sindaci della Valle Seriana (in particolare della Val Gandino, la terra in cui vivo) che hanno pure espresso un certo interesse ma condizionato all’individuazione di un luogo idoneo e al reperimento di fondi necessari per la realizzazione di un possibile museo. In particolare ho concentrato la mia proposta su Gandino, borgo di nobili origini che conserva un centro medioevale ricco di palazzi, luoghi che reputo idonei a questo progetto. Alcuni di questi sono liberi, ma necessitano di ristrutturazioni che potrebbero avvenire anche usufruendo di fondi speciali destinati allo scopo. Si tratta di esserne pienamente convinti e sposare l’idea di un punto di riferimento importante per la cultura musicale in Italia degli ultimi 40 anni. Il patrimonio storico raccolto è di prim’ordine e credo che si dovrebbe fare di tutto per conservarlo e tramandarlo ai posteri».

Gigi con Carlos Núñez

E quindi?
«Tutti i sindaci della zona della Val Seriana rispondono che fondamentalmente non esiste un posto adatto, quando nella sola Gandino, come detto, vi sono molti palazzi letteralmente liberi e che potrebbero usufruire d’investimenti di ristrutturazione se si riuscisse a mettere in piedi tutta quest’idea. Qui la situazione che si è sviluppata in tutti questi decenni è unica in Italia, tengo a dirlo – e forse non solo Italia. Di tutti gli eventi effettuati e dei loro protagonisti, ma non solo, ho collezionato di tutto: lettere di primo contatto, fotografie, biografie, contratti, scalette dei loro concerti, poster e locandine, rider tecnici e quant’altro di curioso o di particolare si possa immaginare. Gli eventi musicali o gli incontri, documentati con registrazioni audio e video che sto riportando in digitale dai vari supporti che sono stati utilizzati nel tempo, ossia dalle classiche musicassette ai più recenti DAT. Un lavoro immane, che mi occupa oltre il pensabile ma assolutamente necessario in quanto parte integrante del progetto. E sottolineo che molti reperti si riferiscono ad artisti di prestigio dell’area folk celtico e dintorni, ma non solo. Il tutto costituisce un universo difficile da illustrare, comprensibile solo se si vede e si tocca in casa Geomusic, ossia casa mia».

Confermo. Chiunque entri in casa tua si trova davanti un lavoro di schedatura a dir poco incredibile di questi oltre 40 anni d’attività…
«L’idea sarebbe quella di costituire un archivio-museo della musica, punto di riferimento per poter esplorare quanto è stato fatto, ma soprattutto come pozzo per attingere idee, perché non c’è futuro senza passato. Vorrei che tutto fosse fatto per un pubblico giovane, che possa essere educato alle tradizioni e a quello che è stato fatto, in un’ottica assolutamente internazionale. Per i più anziani, d’altra parte, potrebbe essere un tuffo nel passato, dove i ricordi sono tantissimi. Testimoniare un’epoca, aprire le menti, dare elementi di cultura un po’ a tutti. Perché tutto ciò accada, abbiamo bisogno di un ulteriore step: ripeto, ci vuole un ente pubblico che si faccia avanti ufficialmente. Tutt’al più anche di un’associazione formalmente riconosciuta. Una situazione del genere in Nord Italia sarebbe unica e potrebbe attirare molti appassionati. Sono convinto che questo sia un progetto che avrebbe grande valenza promozionale del territorio, con conseguente sviluppo delle risorse locali, da quelle culturali a quelle storiche e gastronomiche, aspetto quest’ultimo che è motivo di grande vanto in Italia anche a seguito della recente Expo. Sai, quando dicono la classica cosa della mancanza di fondi, io oserei dire che più che altro è una mancanza di opinioni ma soprattutto di conoscenza».

Con Robyn Hitchcock, Annie Barbazza e amici

Sfatiamo l’etichetta che ti vuole legato esclusivamente al mondo folk-celtico e alla world music…
«Senza farti la cronologia dei miei ascolti – per esempio, il primo disco acquistato è stato uno dei Rolling Stones – nella mia collezione trovi discografie complete di prog inglese e di jazz d’avanguardia. Molti anni fa ho avuto la fortuna di frequentare degli amici fotografi di Bergamo, veri professionisti: con loro andavo ai concerti e ci sedevamo a tavola con artisti che si chiamavano Miles Davis, Charles Mingus, Max Roach, Art Ensemble Of Chicago, Dizzy Gillespie, Anthony Braxton. La mia passione musicale è sempre stata ad ampio raggio. È da poco morto Florian Schneider – e devo dire che mi sono ancora molto emozionato a riascoltare i dischi dei Kraftwerk, come accaduto nelle ultime settimane».

Chi sono l’artista o la band che avresti voluto fare, fra i tuoi miti giovanili?
«Sicuramente Nick Drake e poi i Pentangle, che ho proposto in diverse soluzioni ma mai tutti e 5 gli originali insieme. Un altro che ho inseguito, finora invano, è stato Cat Stevens – ma prima o poi, sempre che io viva a lungo, ci riproverò e chissà. È un mio mito! Io sono cresciuto con musica rock underground o folk alternativo di artisti come Third Ear Band, Incredible String Band, Ash Ra Temple e Dando Shaft. Questi ultimi, per esempio, li ho rimessi insieme io tempo fa per fare alcuni concerti, compresa un’ottima esibizione a Bergamo, che sono stati anche oggetto di una produzione discografica limitata, intitolata Shadows Across The Moon. Pochi altri sogni nel cassetto, ho avuto la fortuna di realizzarne moltissimi – e così “ampliare la mente”. Grazie a loro e ad alcuni maestri di professione e di vita i cui nomi rimangono nella mia memoria».

Bresciani con Jacqui McShee (Pentangle) e amici

Da grande esperto di musica dell’Est Europa quale sei, chi ti sentiresti di segnalare come artisti imprescindibili e perché? Tu sei stato il primo a portare artisti dei Balcani (e oltre) da noi – immagino che avere un musicista come Andy Irvine nel tuo rooster artisti sia stato d’aiuto in tal senso, no? Lui, fin dagli anni 70 appena dopo i Planxty, ha collaborato con molti musicisti dei Balcani, Ungheresi, Rumeni e Bulgari – in Europa è in sostanza il musicista top per l’incontro fra la musica dell’Ovest con quella dell’Est…
«Io ho attinto in gran parte ad artisti ungheresi e bulgari portando in concerto in Italia in esclusiva e per la prima volta gruppi storici come gli ungheresi Muszikas di Martha Sebestyen, Kolinda, Vizonto, Szaratnok; i serbo-croati Vuijcsics, i bulgari Yashko Argirov – un fenomeno la cui popolarità è stata oscurata da Ivo Papasov, nato nella stessa città; le fantastiche e mitiche voci delle Bisserov Sisters; i greco-ungheresi Sirtos, maestri del suono mediterraneo; i gitani Kalman Balogh e Sàndor Kuti – costui, fra l’altro, ospite nell’album Anime salve di Fabrizio De André. Tutto ciò in buona parte grazie all’amico Nikola Parov, fantastico polistrumentista bulgaro ma residente a Budapest che mi ha fatto scoprire formazioni di talento come Makam e Barbaro, quest’ultima mirabile esempio di prog ungherese. Che dire di Nikola? È componente dei Mozaik, supergruppo del quale fanno parte anche i 2 ex Planxty Dónal Lunny e Andy Irvine – e certamente a Andy si deve buona parte dell’acquisita popolarità della musica dell’Est, da noi e altrove».

Insieme a Simon Nicol (Fairport Convention) e Andrea Del Favero (musicista e organizzatore di FolkEst)