Qui siamo malati. No, non di coronavirus – ma di Rod Stewart. Che ci è nel cuore e nell’anima, come da suo noto brano. Non perdiamo mai speranza, ci accaparriamo ogni suo disco nell’attesa che Rod The Mod rianimi, anche per poco, la scintilla del tempo che fu: si tratti di Long John Baldry, Jeff Beck Group, Faces o dei suoi heydays in solo; di album fenomenali come Truth (1968), Every Picture Tells A Story (1971), Ooh La La (1973); di sue canzoni che hanno segnato più di un’epoca, vedi Maggie May e Do You Think I’m Sexy?; di cover passate alla storia dell’arte dell’interpretazione, da Only A Hobo (Bob Dylan) a Street Fightin’ Man (Rolling Stones) fino a Dirty Old Town (Ewan MacColl).

Quella scintilla, qualche volta, è anche riapparsa: vedi When We Were The New Boys (1998), dove affrontava Oasis e Primal Scream, Nick Lowe e Graham Parker – con risultati tutt’altro che disdicevoli. Già, perché Rod è stato uno dei grandi frontman, appena dopo Mick Jagger e Iggy Pop – con quella voce, poi, che a piacimento può sdilinquire e infiammare cuori. E la speranza che sfoderi qualcosa di buono gliela concediamo sempre, per affetto d’ufficio.

Letta la notizia/minaccia di un lavoro che sarebbe stato, addirittura, con un’orchestra, colti da fisime ancestrali ci siamo irrigiditi non poco. Già, perché sono molti i dischi di tanti eroi della musica-non-classica che hanno abusato delle filarmoniche, fin dai tempi di Concerto For Group And Orchestra (1969) dei Deep Purple. D’altra parte, nel corso del tempo qualche gioiello non è mancato: la memoria (personalissima) ci porta all’imperdibile Healing Hands Of Time (1994) di Willie Nelson, un album che mai ci stancheremo di consigliare tant’è aureo. Adesso tocca allo scozzese fanatico dei Celtics nato a Londra giusto 75 anni fa, che con questo doppio You’re In My Heart affronta ben 22 numeri con l’aiuto della Royal Philharmonic Orchestra, una delle due grandi filarmoniche londinesi (l’altra, ça va sans dire, è la London Symphony Orchestra). Risultato: tronfio? Pomposo? Ipertrofico? No, assolutamente no.

Tutto è registrato agli arcinoti studi di Abbey Road, con l’ausilio di un produttore certo non di primo pelo quanto ben conosciuto a tutti: l’ex Buggle Trevor Horn, l’uomo che a partire da Video Killed The Radio Star negli anni 80 modellò mezza musica UK a propria immagine e somiglianza (ne sanno qualcosa Yes, Art Of Noise, Simple Minds, Frankie Goes To Hollywood, Pet Shop Boys…). L’alchimia è quella giusta, nel senso che da una parte l’orchestra fa il proprio mestiere ma non invade il campo e dall’altra Rod si dimostra molto in forma, sia vocalmente sia tout court come presenza. E in mezzo si coglie una contagiosa tensione sbarazzina e rock. Certo, se un dì dovessimo tornare ad ascoltare Reason To Believe (Tim Hardin), Handbags And Gladrags, Have I Told You Lately (Van Morrison), The Killing Of Georgie, The First Cut Is The Deepest (Cat Stevens), I Don’t Want To Talk About It (Crazy Horse), fino al gran uno-due dedicato a Tom Waits con Downtown Train e, soprattutto, Tom Traubert’s Blues (Four Sheets To The Wind In Copenhagen) – magari non volteremmo qui ma dove Stewart le ha incise in prima istanza nel corso degli scorsi decenni. Ragionando sul qui & adesso, però, tutto gira molto bene.

Come girano molto bene le due special guest che il biondo-finto-spettinato ha chiamato a sé. Uno è Ron Wood, l’amico di sempre, che fa saltare il banco con l’intramontabile Stay With Me dei Faces – potente, trascinante e rugosa al punto giusto. L’altro è nientemeno che il più detestato Take That sulla faccia della terra, facciadaschiaffi Robbie Williams, che non sbava di nulla in It Takes Two, il vecchio hit Motown di Marvin Gaye e Kim Weston già inciso da Rod 30 anni fa con Tina Turner. Come, se la memoria non inganna, il buon Robbie non sbavò di nulla con Tom Jones nel duetto in Are You Gonna Go My Way (Lenny Kravitz) dello straccia classifiche Reload (1999) – giusto per concedere a Cesare ciò che gli appartiene.

Ma tornando a You’re In My Heart, se volete fare il giochino cerca gli omaggi alla classica nelle quasi 2 ore che vi attendono, di occasioni ve ne sono diverse: una per tutte, l’unico vero inedito Stop Loving Her Today, arrangiato sull’aria del Nessun dorma di Giacomo Puccini – roba che i grandi come Rod Stewart il kitsch lo sanno dominare come vogliono, divertendo. Desiderio finale: sarebbe bello che qualche produttore in voga oggi, di quelli riesuma carriere tipo Rick Rubin o Ethan Johns, per un eventuale prossimo disco lo asserragliasse in un motel vicino Tucson, nessuno che disturbi per 4-5 giorni, con pochi strumenti, microfoni messi nei punti giusti per cogliere l’atmosfera e repertorio scelto come si deve fra Sam Cooke e Bob Dylan, bluesmen e folksinger, Motown e rock and roll – lì si che Rod chiuderebbe in style una carriera che non ha fatto mancare nulla di nulla, sia a lui sia a noi.