Per quanto possa sembrare al grande pubblico (quello che l’ascolta per radio e soprattutto nei centri commerciali previo successo milionario dei primi 2 album), Norah Jones è una tizia irrequieta. Ha fatto, piuttosto, proprio di tutto per scrollarsi di dosso etichette, stereotipi e cliché. Basti guardare all’affascinante evoluzione che permea la sua discografia, con peraltro la metamòrfosi da interprete pura ad autrice di quello che ella canta; oppure l’infinita, eterogenea lista di collaborazioni di cui in quasi 20 anni è stata protagonista. A memoria: Keith Richards, Dayna Kurtz, Jack White, Ryan Adams, Bob Dylan, Rodney Crowell, Lila Downs, Mercury Rev, Ray Charles, Dolly Parton, Dirty Dozen Brass Band, Lindsey Buckingham (Fleetwood Mac), l’amatissimo Willie Nelson, Charles Lloyd, Danger Mouse, Wyclef Jean (Fugees), Emmylou Harris, Thievery Corporation, Herbie Hancock, Outkast, Jakob Dylan, Irma Thomas, Billie Joe Armstrong (Green Day) – e non sembri un elenco tipo le partnership ingrassa curriculum delle solite “prezzemoline” su piazza, vedi Sheryl Crow e Brandi Carlile, tizie che oramai si trovano ovunque manco fossero i conservanti nelle lattine Simmenthal. Norah è una che ci dà dentro, non fa le cose per caso. Sempre sul pezzo. Molto ammirevole.

Già erano piaciuti parecchio i 2 dischi del side project Little Willies (il nome era un omaggio a Willie Nelson, peraltro irriverente: Little Willies potrebbe essere tranquillamente tradotto come “Pisellini“), cui queste Puss N Boots sono un po’ l’evoluzione al femminile (insolenza del nome compresa – traducetelo voi…). Con lei sono la cantante jazz californiana Sasha Dobson e la (principalmente) chitarrista southern Catherine Popper – esordio con No Fools, No Fun (2014), metà pezzi originali e metà cover che spaziavano dai Wilco alla Band, da Rodney Crowell a Neil Young, da Tom Paxton a Roger Millercotillon recente con l’EP Dear Santa… (2019), dove rimane imperdibile The Great Romancer, favoloso pezzo scritto con Don Was. E adesso, quasi a sorpresa con minima short notice, ecco il 2° album – contando pure che Norah il prossimo 8 maggio uscirà con il nuovo disco a suo nome, Pick Me Up Off The Floor. Coronavirus permettendo.

Sister è un passo avanti rispetto al lavoro del 2014, giacché qui il repertorio è in predominanza di brani originali, levigati con un bel tocco lunare old timefolksoulcountry nella miglior tradizione Cosmic American Music. Fra i primi, diversi dei quali firmati dalle 3 ragazze insieme (impegnate a suonare tutto da sé, oltre le lead vocals scambiandosi pure gli strumenti), spiccano il crescendo angolare It’s Not Easy, lo spudorato willienelsoniano You Don’t Know, il carezzevole Lucky, il bellissimo folkgrass The Razor Song e il dissonante country pezzo guida. Dal già citato EP è recuperato anche The Great Romancer, che non poteva perdersi così in una pubblicazione per appassionati – fra l’altro, in una versione leggermente diversa da quella di qualche mese or sono.

Le cover, tutte di gran bella scelta, con il trio che si supera. Vedi come pescano nel miglior rock più squisitamente americano con Angel Dream (Tom Petty & The Heartbreakers) e It’s A Wonderful Lie (Paul Westerberg); ma pure con l’oscura Same Old Bullsh*t (Helen Rogers) e il fine alternative pop Joey, uno dei gioielli più lucenti (e di successo) dei Concrete Blonde chez Johnette Napolitano. La palma d’oro, fra le riletture, però l’assegniamo a The Grass Is Blue: il pezzo è fra più affascinanti dei recenti di “sua maestà” la regina Dolly Parton – e Norah ne regala una sincopata versione tutta da ascoltare e riascoltare. Piacciono eccome, queste impudenti ragazzacce con gli stivali.

Foto: © Danny Clinch