Il vero problema di Ready Or Not è uno solo: che esce solo adesso. Ma pure che si possa perdere nel mare magnum di uscite praticamente mensili che riguardano i Grateful Dead. Aggiungiamo anche che già una pletora di bootlegger vi aveva ampiamente pensato a mettere insieme il final album del Morto. Filologia. Fra l’ultimo album di studio Built To Last (1989) e la prematura ma non inattesa morte di Jerry Garcia (1995), il gruppo di San Francisco aveva inserito un buon numero di composizioni nuove nel repertorio live; e per giunta, sicuramente nel 1992 secondo quando raccontano nelle rispettive biografie sia il bassista Phil Lesh in Searching For The Sound: My Life With The Grateful Dead (2005), sia il batterista Bill Kreutzmann in Deal: My Three Decades Of Drumming, Dreams, And Drugs With The Grateful Dead (2015), vi furono pure delle session perché si concretizzasse un nuovo disco di studio. Frustrazione e tensioni varie fra i vari componenti non portarono a nulla di fatto.

Ready Or Not, dunque, colma una carentiam non di poco conto nella discografia ufficiale dei Grateful Dead. Diversi brani erano già apparsi qui e là nella miriade di uscite postume, fra cui l’imperdibile boxset So Many Roads (1965–1995) del 1999, ma udirli in una pubblicazione coerente e mirata, garantiamo regali un gran bell’effetto. Aggiungiamo anche che gli anni live da cui è tutto tratto, fra il 1992 e il 1995, sono stati una conclusione tutt’altro che in tono minore della loro storia nonostante i noti problemi personali/di salute che affliggevano Captain Trips Garcia e l’ipertrofico circo-business intorno alla band che aveva forse compromesso l’aurea per anni riottosa a compromessi. Leggi: i Grateful Dead spesso giravano a 1.000 pure negli anni 90, poche storie.

9 brani, quasi equamente divisi fra repertorio sponda Jerry e quello Bob Weir. Con in più un paio di brani firmati da quello che all’epoca era il nuovo acquisto: Vince Welnick, l’ex Tubes arruolato alle tastiere appena dopo, nel 1990, la scomparsa per overdose di Brent Mydland. Vince che aveva portato nuova linfa all’economia Dead, sia strumentalmente sia vocalmente.

Il duo Jerry GarciaRobert Hunter, che per quasi 3 decenni fu foriero di classici che hanno definito il panorama di tutta la musica yankee, anche nel crepuscolo della collaborazione fu capace di grandi momenti. Ne siano prova mirabili ballate come Lazy River Road, So Many Roads (con una coda che riprende la dylaniana Knockin’ On Heaven’s Door) e più di tutte Days Between, il numero simbolo degli ultimi anni del sestetto, tutti perfetti esempi di quello “specchio rivolto verso l’infinito” che è sempre stata (e sempre sarà) la musica dei Dead.

Naturalmente anche Bob Weir, il rocker e il bello della formazione, fa un figurone. Il gruppo è a full on regime di marcia e quando si incontrano Corrina, qui arrangiata con un tiro space out che sfiora i 16 minuti, e quella Eternity frutto della collaborazione con il leggendario bluesman/compositore Willie Dixon (virtualmente l’ultima cosa scritta della spina dorsale della Chess Records prima di passare a miglior vita), non si può che rimanere ammaliati dalle “note senza confini” dei nostri eroi. Meritevole di citazione pure Welnick: se Way To Go Home non va oltre essere un dispensabile filler, Samba In The Rain guadagna pieno rispetto con quelle contagiose aperture fra jazz e ritmi tropicali che si rincorrono nei 7 minuti di performance. Per il resto, pronti o no che siate, questo disco dei Grateful Dead è tutt’altro che superfluo.

Foto: Jerry Garcia
Bob Weir
Vince Welnick