Fiona Apple poteva diventare la Joni Mitchell (per popolarità) o la Laura Nyro (per corrispondenza artistica) del nuovo millennio – e un po’ vi è riuscita. Ma soprattutto è diventata qualcosa fra lo scomparso scrittore J.D. Salinger (1919-2010) e la sua viva ma sparita collega Bobbie Gentry. Fondamentalmente una reclusa che però, al contrario di quei 2 celebri auto-esiliati, si concede, oltre ai dischi, uscite ben mirate. Appena 5 album pubblicati dal dì del debutto in coda all’epoca grunge, nel 1996, compreso questo nuovo Fetch The Bolt Cutters – lanciato come una bomba nel pieno della pandemìa, quando probabilmente tutti le consigliavano di rimandare (molti sono i dischi posticipati causa coronavirus: da Rufus Wainwright a Thomas Dutronc, fino a Norah Jones).
Le ultime notizie dall’eccellente The Idler Wheel… (2012) sono state quelle di chi vive una vita quantomeno erratica: è finita in gattabuia in Texas per possesso di qualche spinello; pare che si sia sposata, abbia già divorziato e sia tornata alla vita promiscua che l’ha sempre caratterizzata (un gossip recente la vuole in una liaison con la modella-attrice Cara Delevingne); ha cancellato, dopo le date americane, il resto del tour del disco del 2012 perché «il mio cane sta morendo e devo assisterlo» (non sembri frivolezza dell’ennesima “principessa sul pisello” – il messaggio social che annunciava la faccenda era davvero toccante, leggetelo o rileggetelo…); collaborazione con il gruppo bluegrass Watkins Family Hour nel 2015 (disco e uscite live); qualche concessione a colonne sonore, come Dull Tool in This Is 40 per il suo amico regista Judd Apatow e la (magnifica) cover dei Waterboys con The Whole Of The Moon per il serial tv The Affair. Poco altro. Scordatevi interviste (una sola negli ultimi quasi 10 anni, quella recente e rivelatrice al New Yorker) e concessioni mediatiche – che quelle, volendo provocare un po’, sono per chi musicalmente non ha nulla da dire.
Fetch The Bolt Cutters, titolo perfetto – procurarsi le tronchesine. Roba per chi sta scappando o che comunque sta facendo qualcosa di equivoco. Già, perché Fiona potrebbe tranquillamente dedicarsi a del pop-rock cartacarbone dei suoi (magnifici) vecchi successi, tipo Criminal o Shadowboxer; cosa che le garantirebbe alta classifica e al seguito stuoli di smorfiose adoranti. Ma visto che la 42enne newyorchese vuole apparire tutto tranne che una bambolina, lei che di avvenenza estetica ne ha da vendere, punta su un disco contorto, spigoloso, fatto di tornanti vertiginosi, di nausea in gola – di chi non ha paura di esprimersi scavando dentro di sé profondamente e, parole sue, «di voler evadere da qualunque prigione hai concesso a te stesso di vivere». Album di quelli che non devi e non puoi ascoltare per semplice svago, dove la bellezza delle canzoni spesso nuota in acque cacofoniche che, non paia azzardato, richiamano a certe cose di Nina Simone (il jazz, il blues e J. S. Bach senza soluzione di continuità) e, forse più manifestamente, di Kate Bush. Per entrarvi, insomma, bisogna munirsi di tronchesine, che qui di filo spinato da far saltare ve n’è molto.
Nel recinto di guerra al femminile che è Fetch The Bolt Cutters, Fiona chiama a sé come principali comprimari gli storici collaboratori Davíd Garza e l’ex Soul Coughing Sebastian Steinberg (e in diversi numeri non manca nemmeno il mago della consolle Tchad Blake, pure lui storico affiliato). Manca Jon Brion, non un dettaglio per chi conosce davvero la cantautrice – ma ogni tanto fa bene distanziarsi da chi ti ha comunque dato molto. Il tutto, addirittura, è frutto di ben 5 anni di lavoro sparso in vari studi fra Los Angeles e il Texas. Ne risulta un disco dove l’immancabile piano di Fiona si staglia su percussioni ossessive e stratificate, degne della già evocata Bush ma pure del Peter Gabriel più paranoico pre So (1986) e del Tom Waits di Bone Machine (1992) – e addirittura, per chi vanta orecchie affinate, di qualche campione della industrial music come Einstürzende Neubauten e Young Gods.
Come se tutto fosse costruito attorno all’idea “di ballare il corpo umano”, di guidare e incanalare i ritmi che esso trasmette. Quando ascolti I Want You To Love Me, Relay oppure On I Go, si percepisce come la Apple cerchi il tentativo febbrile di rispecchiare il caos, quello che si verifica nella mente umana quando essa sciaborda – cosa peraltro sottolineata da campionamenti di cani mugolanti, ringhianti e abbaianti che affiorano lungo l’ascolto. Poi vi è la voce di Fiona, figlia della miglior Laura Nyro – come si coglie al volo in Heavy Baloon, nel blues a cadenza hip-hop di Ladies (“E vedo che continui a tentar di mordermi/E mi piacerebbe affrontarti faccia a faccia/Ma so che se ti odiassi perché tu mi odi/Entrerei in una competizione senza fine“) o nella stessa Fetch The Bolt Cutters, in cui nel testo è evocata direttamente pure la Kate Bush dell’hit anni 80 Running Up That Hill. Voce che è proprio l’artista a spiegarne l’uso nella già citata intervista di poco tempo fa: «Mi diverto con la mia voce, ma non sto cercando di renderla carina tutto il tempo. Non sto cercando di convincere alcuno che sono una cantante. La mia voce si è giusto rivelata essere un altro strumento da aggiungere alla musica che avevo in testa».
E gli esempi non si esauriscono ai già evocati: sia che ella cerchi un tono sferzante, vedi Shameika; o raschi le corde vocali alla ricerca di uno strido interiore, vedi Newspaper con quell’evidente rimando melodico e testuale a Then He Kissed Me delle Crystals/Phil Spector – Fiona Apple articola alla perfezione ogni parola, emettendo travolgenti turbamenti senza mai perdere il controllo delle emozioni. Anche se bisogna procurarsi delle tronchesine.