Magnifico Bob Weir che dal 1978 in poi, poco dopo il contratto discografico dei Grateful Dead con l’etichetta Arista, prese il famoso verso del classico deadiano Jack Strawwe used to play for silver, now we play for life” e nei concerti spesso passò a “we used to play for acid, now we play for Clive”. Il Clive di cui parla è naturalmente Clive Davis, “newyorkesissimo” ebreo classe 1932, noto al jet-set internazionale per il suo stile con savoir faire da vendere – ma soprattutto noto al mondo della musica come uno dei più grandi discografici americani: parte di un circolo ristretto che per decenni ha dettato legge nel biz delle 7 note. Ne fanno parte lui, il “nemicissimo”David Geffen, l’appena scomparso Joe Smith, Ahmet Ertegün, Mo Ostin, John Hammond Sr e Walter Yetnikoff.

Grazie a Netflix adesso è visibile anche in Italia (sottotitoli nostrani compresi) il documentario The Soundtrack Of Our Lives (2017): 2 ore abbondanti sulla sua incredibile storia – che peraltro avevamo già ammirato nel paio di autobiografie pubblicate, Clive: Inside The Record Business (1975) e appunto The Soundtrack Of My Life (2013), quest’ultimo scritto con l’aiuto del noto giornalista Anthony DeCurtis, veri pozzi di aneddoti e di sapienza di un executive con pochi plausibili e degni paragoni.

Il regista Chris Perkel suona a dovere la sinfonia del business animal Clive. Davis parte come “colletto bianco” alla Columbia/CBS; ma attenzione, non nella divisione artistica bensì nel reparto meramente tecnico, quello della fabbricazione dei dischi. Comandava gli opifici, insomma. Poi arriva il giorno che Goddard Lieberson, il pluriennale presidente-totem della Columbia, va in pensione – e tutti si attendono che John Hammond Sr subentri a lui. Contro ogni previsione, non è Hammond a essere incaricato ma lo “sconosciuto” Davis, già da 1 anno comunque passato alla divisione artistica. L’anno è il 1967 e fino al 1973 Davis regna sovrano come presidente Columbia. Il 1° grande atto, su invito di quello che diverrà amico di una vita, Lou Adler, è presentarsi al Monterey Festival, elegantissimo in giacca e cravatta in mezzo a migliaia di fattissimi hippie, e firmare tutto il firmabile. Di lì sarà un’escalation pazzesca di grandi nomi e di milioni di dischi venduti: Janis Joplin (il film si apre e si chiude con lei, The Pearl), Santana, Electric Flag, Chambers Brothers, Moby Grape, Laura Nyro (è lei l’inizio della guerra cane & gatto con David Geffen, con quest’ultimo che non riuscì a strappare l’adorata Laura alla Columbia per farne la star della Asylum – poi arrivò Joni Mitchell e…), Chicago, Carole King, Sly & The Family Stone, Blood Sweat & Tears, Billy Joel, Pink Floyd, Loggins & Messina, Aerosmith, Earth Wind & Fire, Lynn Anderson, Bruce Springsteen, Blue Öyster Cult e tanti altri nomi che imposero il serafico Davis in cima al mondo discografico.

Succede che, però, nel 1973 il lanciatissimo Clive incappi in un “piccolo” incidente. Tonfa – e il tonfo fa molto rumore. Dall’attico della torre Columbia viene defenestrato perché pare abbia sovvenzionato il bar mitzvah di uno dei figli. In verità, la versione ufficiosa parla di mazzette varie – sebbene l’episodio non sia mai stato chiarito per bene; e fra l’altro, nel film lo stesso Clive lo racconti un po’ “alla sua maniera”. Dopo un breve passaggio alla Columbia Picture, troppo innamorato della musica e della discografia Davis impone il suo primo comeback – fonda l’Arista Records, sul finire del 1974. Nel giro di poco è di nuovo in cima al mondo: scopre il Patti Smith Group, l’Alpha Band (il gruppo di T Bone Burnett spin off della dylaniana Rolling Thunder Revue – a detta di Davis il suo più grande rammarico di “non successo”), Outlaws e Barry Manilow; “firma” Aretha Franklin, Kinks, Lou Reed, Grateful Dead, Dionne Warwick, Gil Scott-Heron; giungono gli anni 80 con il break (il suo ennesimo) di Whitney Houston, smisurato successo e rapporto interpersonale quasi padre-figlia che si confonderanno fino alla prematura scomparsa della cantante; i Grateful Dead finalmente in cima alle classifiche con In The Dark (1987) e il singolo Touch Of Grey (smacco per Mo Ostin e Joe Smith che per molti anni ci provarono a portarli  lassù?); l’Arista Nashville, milionesima riprova del suo impareggiabile fiuto che questa volta si chiama Alan Jackson, Brooks & Dunn, Pam Tillis e Brad Paisley, fra le più grandi star anni 90 sponda country music (con tante iniezioni pop).

Concertato il mostruoso successo di Supernatural (1999) del suo vecchio pupillo Carlos Santana, succede l’impensabile: la BMG, che nel frattempo ha preso in mano le redini finanziarie dell’Arista, dà il benservito a Davis con una buona uscita milionaria. Questione di età, dicono. Bene. Clive glielo mette “in quel posto“a tutti quanti, “again and again“, e fonda la J Records: il che significa Alicia Keys e il suo debutto Songs in A Minor (2001), ossia una quindicina di milioni di copie vendute come noi facciamo schioccare le dita; nonché la serie dedicata agli standard americani di Rod Stewart, anch’essa stra-milionaria. Anche uno così, tuttavia, qualcosa se l’è fatto sfuggire, per sua stessa divertita ammissione. I 2 principali “rammarichi” si chiamano Meat Loaf e John Mellencamp, dei quali ascoltati i demo egli non si convinse a metterli sotto contratto – e nel film tutto viene liquidato con una gran risata da parte dell’interessato, nonostante le seguenti vendite milionarie. Per la concorrenza.

Nel tutto, a puntellare la narrazione di Clive e gli incredibili filmati di repertorio perfettamente montati, vi è una serie di amici molto altolocati che al documentario regalano interventi esclusivi di prima mano: Lou Adler, Bob Weir, Bruce Springsteen, David Geffen, Paul Simon, Art Garfunkel, Jimmy Iovine, Puff Daddy, L.A. Reid, Carlos Santana, Patti Smith (e qui Clive dichiara solennemente che l’autrice di People Have The Power sia l’artista che più ama fra coloro con cui ha lavorato), Alicia Keys, Dionne Warwick, Gamble & Huff, Gladys Knight, Rod Stewart, Joe Smith, Oprah Winfrey, Kenny G, Diane Warren, Toni Braxton, Barbra Streisand, Slash, Barry Gordy Jr e nonsappiamochialtro.

Domanda: a The Soundtrack Of Our Lives manca qualcosa? Sì. Per esempio, cogliamo un po’ di sbilanciamento fra i quasi 30 minuti dedicati a Whitney Houston e lo spazio dedicato (nullo) a un paio delle sue più grandi “scoperte”, Sly & The Family Stone e Blue Öyster Cult; oppure quello concesso ai Kinks (pochi secondi), che Clive negli anni 70 impose alle masse americane dopo lustri di continui flop del gruppo inglese. Altra mancanza, il giusto spazio a uno dei suoi migliori amici nella vita privata: Lou Reed, che si vede in pochi fotogrammi. Clive racconta della sua bisessualità (nonostante 2 precedenti matrimoni e annessa prole) ma non delle sue frequentazioni peccaminose nella NYC degli anni 70, dove il suo personale Virgilio nei bassifondi della Grande Mela fu proprio l’ex Velvet Underground. Per i dettagli rifatevi pure all’imperdibile libro Lou Reed: A Life (2017), splendida bio firmata dal già citato DeCurtis.

Manca pure Bob Dylan, con il quale Clive fu protagonista di 2 episodi chiave. Il 1° sul finire degli anni 60, quando la MGM stava per strappare il futuro Nobel alla Columbia, dove era la massima star – Clive si mise di traverso per evitare lo smacco e, previo ritocchino al contratto, non se ne fece nulla. Il 2° nel 1973. Sentito dei “problemini” che Davis stava avendo in azienda, fra gelosie assortite e l’episodio che gli costò il posto, David Geffen riuscì a strappare Dylan a mamma CBS per ben 2 album, la doppietta 1974 con la Band di Planet Waves/Before The Flood – cosa che durò poco, grazie all’intervento di John Hammond Sr e relativo contratto principesco che riportarono a casa His Bobness.

Per il resto, vi sono 2 eventi mondani che in USA da molti lustri ti consacrano se sei un vip: essere invitato al post Oscar party di Elton John e al pre Grammy party di Clive Davis. Sappiatelo, se avete delle ambizioni vip e un dì doveste trovarvi da quelle parti.

Foto: Clive Davis con Janis Joplin
Con Patti Smith
Insieme a Lou Reed
Con Bruce Springsteen e Patti Scialfa