Being Chris Blackwell. Entrare nella testa del discografico anglo-giamaicano che fondò la Island Records, uno dei grandi atelier musicali di ogni ogni tempo: Bob Marley, U2, Traffic/Steve Winwood, Fairport Convention & affini, Jimmy Cliff, Marianne Faithfull, Linton Kwesi Johnson, Pulp, Grace Jones, Pogues, Tricky, John Cale, Roxy Music/Bryan Ferry/Brian Eno, Nirvana (il gruppo psichedelico, non quello grunge), PJ Harvey, Jimmy Buffett, Toots & The Maytals, Ultravox!, Cranberries, Free, Sparks, Tom Waits, Frankie Goes To Hollywood – giusto per fare qualche nome. Ecco, entrare nella testa del sommo Mister Blackwell, intorno al 1970-74. Immaginiamo che avendo in forze nella sua creatura gente come Richard Thompson post Fairport, Nick Drake, John Martyn e Cat Stevens (su, non facciamo i maschilisti: Sandy Denny merita una citazione), l’idea fosse quella di puntare forte sul cantautorato, quello di altissimo livello e giunto fino a noi a dir poco immacolato. Fra chi avrebbe meritato più successo (Thompson), chi è morto forse-suicida-forse-no (Drake) e chi si è attaccato un po’ troppo alla bottiglia (Martyn), Cat Stevens, inglese ma figlio di padre ellenico-cipriota e di madre svedese, è colui che al conto in banca Island ha portato tanti, tantissimi dobloni. Roba che a quell’epoca Stevens rivaleggiava in vendite con Elton John, per intendersi – con brani veramente senza tempo come Father & Son, The Wind, Lady D’Arbanville, Peace Train, Where Do The Children Play, Wild World, Moonshadow. Tutta roba perfetta per un greatest hits da urlo.
Contrariamente a Sir Elton, però, Cat era in cerca anche di altro e, probabilmente, viveva male il proprio ruolo di artista di grandissimo successo, tanto da arrivare a scrivere un pezzo come (I Never Wanted) To Be A Star (lo trovate in Izitso, suo album del 1977), che presagiva la voglia di mandare tutto a quel paese. Per quanto la trilogia Mona Bone Jakon (1970), Tea For The Tillerman (1971) e Teaser And The Firecat (1972) è roba che porta benessere ma pure musica che (forse) crea pesante cliché per chi ha veramente l’animo dell’artista – vedi pure come nei dischi seguenti Stevens tentò strade musicali diverse (chi avesse voglia, per farsi un’idea si riascolti i quasi 20 minuti di Foreigner Suite). Vi ricorda qualcosa del nostro Lucio Battisti, con il quale Cat per un certo periodo ha condiviso pure il batterista Gerry Conway (Steeleye Span, Fotheringay, Jethro Tull)? We’re positive – anche perché le analogie artistiche Stevens/Battisti non passano certo inosservate. Ma non divaghiamo.
Dopo aver pasticciato non poco fra Rinascita Cristiana (la ben nota Morning Has Broken non è altri che la sua interpretazione di un inno sacro riadattato negli anni 30 dalla scrittrice inglese Eleanor Farjeon), Buddismo, Zen, I Ching, numerologia, tarocchi e astrologia (qualcuno tutto ciò potrebbe chiamarlo “ricerca interiore”) – dopo tutto ciò arrivò, dunque, il tempo che Cat volle chiudere un lungo capitolo della sua vita, per poi abbracciare definitivamente la fede islamica con il nome Yusuf Islam. L’illuminazione nel nome di Allah giunse, in verità, nel 1976 quando, narrano le cronache, scampò alla morte dopo aver rischiato di affogare nella sua villa di Malibù. Soprattutto, però, la conversione negli anni gli ha creato non pochi problemi, tipo per un lungo periodo il divieto di entrare negli Stati Uniti e addirittura un certo, generalizzato discredito dopo aver dato appoggio pubblico alla fatwā lanciata dall’Ayatollah Khomeini nei confronti dello scrittore Salman Rushdie a causa del romanzo I versi satanici (1988).
L’addio a “Cat Stevens il cantautore” si chiama Back To Earth, pubblicato nel dicembre 1978, che riascoltato ancora oggi è un lavoro che non soffre dei decenni passati – e, anzi, è fra i suoi lavori più pregevoli appena dopo quelli di 8-9 anni prima. Un disco composito, non fosse altro che fu registrato a macchia di leopardo fra Danimarca, Londra, New York, Canada, Massachusetts – ma con sempre alle spalle lo storico produttore Paul Samwell-Smith, con lui dai tempi Mona Bone Jakon. Le perle, sono tante: trovate il classico Cat balladeer in Father, sebbene non manchi un up-to-date lieve tocco funky; il canto a squarciagola di Just Another Night; gli slanci world music dello strumentale jazz-samba Nascimento, smaccato omaggio a Milton Nascimento e al Clube da Esquina (ricordiamo che Stevens nel 1973 visse per un certo lasso a Rio de Janeiro – toh, più o meno nello stesso periodo Lucio Battisti e Mogol erano in Brasile a raccogliere idee per Anima latina… le analogie Stevens/Battisti di cui sopra); il radiofonico soul di New York Times, con ospite Luther Vandross a rendere il tutto più black; il pop beatlesiano tendenza Paul McCartney di Last Love Song (“If you don’t want me/Maybe I don’t want you” – presagio di addio?); fino alla bellissima Randy, pastello in nome dell’amore uranista ma platonico, come Cat si affrettò a precisare.
Back To Earth rivede la luce con questa ristampa di ben 5 Cd, che potete gridare forte e chiaro è una goduria coi contro-fiocchi. 1° Cd: ovviamente il disco originale, rimasterizzato a puntino nientemeno che ad Abbey Road. 2° Cd: la versione stereo già edita nella ristampa 2001 del disco. 3° Cd: ben 11 brani inediti o comunque rari, dove non si può tacere su Butterfly e Toy Heart, già note nel mercato illegale – gemme che non avrebbero sfigurato nell’album del 1978. 4° Cd: l’introvabile Alpha Omega/A Musical Revelation (1979), disco prodotto da Cat stesso e per gran parte scritto da suo fratello David Gordon (anni più tardi anche costui con qualche problemino, tanto da essere accusato di terrorismo islamico – altra storia…), sorta di pop opera con una pletora di ospiti che comprende David Essex, l’attrice Susan George, Gloria Jones, Noel Pointer, Kim Goody e diversi altri. 5° Cd: Year Of The Child, il concerto d’addio alla Wembley Arena di Londra per l’UNICEF del dicembre 1979 (Cat, fra l’altro, negli anni 70 fu la prima pop star che si mise al servizio dell’UNICEF, attraverso la sua fondazione benefica Hermes); vecchi e nuovi classici con strumentazione spartana, 35 minuti che chiudono una dozzina d’anni a dir poco magici, con gran finale nel nome della splendida Child For A Day, dov’è raggiunto nel palco da Richard Thompson e David Essex. Per il ritorno alla musica occidentale, rientro peraltro tutt’altro che disdicevole, bisognerà attendere il 2006 con An Other Cup e i 3 dischi seguenti: ma quella è la storia di Yusuf Islam, non di Cat Stevens.