Fra pochi mesi Enzo Gragnaniello compirà i fatidici 65 anni: non poteva trovare modo migliore per festeggiarli che dare alle stampe Lo chiamavano vient’ ‘e terra, splendido disco che corona una carriera ricca di grande musica e che non è mai scesa al livello di facili compromessi. In questa intervista esclusiva ci racconta del nuovo album, di Napoli, della sua vecchia amica Mia Martini, di JJ Cale e di tanto altro. Buona lettura…
Lo chiamavano vient’ ‘e terra è il racconto autobiografico di come tu, giovanissimo, alzasti i tacchi dai vicoli napoletani alla volta di Milano, città identificata come il luogo più lontano dove poter “scappare”. Da che tipo di città fuggivi e in quale speravi di approdare?
«Per quel pezzo mi sono comportato un po’ come i pittori, che alla fine si fanno l’autoritratto. Io ho fatto la stessa cosa raccontando in una canzone le mie esperienze. Da ragazzino volevo scappare e andare in un posto lontano da Napoli. Pensa che dovevo ancora compiere 15 anni, praticamente una fuga di casa durata 3 anni, tornando qualche volta nella mia città. Milano mi piaceva molto e lì era facile trovare ragazzi del sud, come me andati via di casa e con i quali si creava una specie di famiglia».
Tutto questo per cercare fortuna con la musica?
«No, assolutamente. Sai, vivevamo in uno dei vicoletti napoletani, stavamo in 7 in una stanza e io ero il figlio più grande. Chiaramente mi sentivo stretto in quella situazione. La fuga fu una ricerca di libertà, essendo io un anarchico naturale – senza concimi. Biologico» (ride).
Passando a un altro brano dell’album, chi sono Gli uomini ego?
«Sono tutti quei pazzi che si sentono più furbi degli altri e vogliono prevalere sugli altri. E la nostra società di questi tizi ne è piena. Gente che vuole potere, gente che si è fatta fare dall’ego. Megalomania. Dicono che per arrivare ci voglia un po’ di ego, ma quelli che intendo io l’ego se lo sono proprio mangiato. Campano con spirito e anima imprigionati, vivendo tutto con la parte razionale, con la paura di non farcela, di non arrivare. Questa è un po’ la mia visione dell’Italia, di un paese “dislivellato”».
Pezzi come Povero munno e ‘A delinquenza, con quel verso “è na pasta cresciuta cu ‘o lievito furbo e nun tene pietà”, mostra una certa visione negative delle cose…
«Lì io non parlo di un soggetto fisico bensì di un virus annidato ovunque. La delinquenza la considero un’entità, non è quello che fa lo scippo o quello che imbroglia. Più che altro è la conseguenza di mancanza di valori. Siamo arrivati a un punto dove nemmeno più nelle chiese si parla di amore: lì l’argomento principale di cui parlano i preti è l’odio che si sta insinuando».
I tuoi dischi sono quasi sempre prodotti da te e l’ultimo non fa eccezione. È una scelta artistica o vi sono altri motivi?
«È una scelta artistica, semplicemente per fare quello che voglio senza alcuna interferenza esterna. Lavorare quando ne ho voglia e basta, senza dover fare le cose per forza».
Questo non è frutto di una brutta esperienza passata con qualche produttore o con qualche casa discografica?
(ride) «Mah… guarda, la storia è lunga – è un casino! (ride) Ho avuto anche esperienze con grandissime discografiche come Caterina Caselli, oppure con un produttore come Willy David. Ho vissuto anche situazioni che mi sostenevano, ma in verità sono sempre stato come quando da ragazzino, come ti ho raccontato prima, volevo “scappare”: ho sempre voluto essere libero. Se devo cantare, se devo creare delle canzoni, io non voglio avere alcun contratto discografico che mi obblighi a fare le cose. Mi dà fastidio. Io non voglio niente, perché non faccio questo mestiere per vanità. A me non interessa tanta esposizione. Non mi interessa andare in televisione o dover fare il simpatico quando non ne ho voglia. Non ho tempo per tutto questo. Voglio arrivare al cuore della gente e basta. Se ci riesco, bene – se no, non fa niente. Mi godo la mia libertà di sempre e la vita, che è bellissima. Poi io ho anche un lato romantico…».
…esattamente: nel disco ci sono anche pezzi squisitamente sentimentali come Cara e Na sera cu’ ttè…
«Già, se non hai la sensibilità di raccontare l’emozione di qualcosa non puoi nemmeno averla per raccontare la delinquenza».
Sei nato e cresciuto a Napoli, dove vivi tuttora. Cosa vuol dire essere napoletano, al di là di quello che dice la carta d’identità?
«Significa essere fortunato, davvero. Vivere in una città geograficamente bellissima, per esempio. L’energia che si vive qui è potentissima, regala vera emozione. Ci sono tanti elementi della natura che influiscono sullo stato d’animo: dal mare al tufo, di cui la città è piena. A Napoli io sto bene, ho gli umori giusti. Ci sono anche contraddizioni, si vivono ansie – ma come dice una mia vecchia canzone “tengo u mare a pochi passi e io mi sto scavando a fossa”. Più che i problemi sociologici, visto che noi passeremo, istintivo che sono a me di questa città interessano più il mare, i colori, gli odori, il vento, il sole. Uno che è nato a Napoli si deve mettere all’altezza di Napoli, se mi intendi».
Cambiamo argomento. Tu hai scritto più volte per Mia Martini. Quest’anno è uscito un film biografico che la riguarda: se lo hai visto, ti è piaciuto?
«La verità è che parla principalmente del periodo anni 70 e io Mia la conoscevo solo di nome. Invece non parla della seconda parte della sua vita. Credo che quando io e lei ci incontrammo di nuovo nel 1985, dopo una veloce frequentazione nel 1983 alla DDD di Milano, per lei vi fu un ribaltamento della situazione. A quell’epoca arrivarono 2 impresari napoletani e mi invitarono ad assistere a uno spettacolo di Mimì in zona Vesuvio. Era il periodo in cui lei non stava troppo bene, questi personaggi volevano produrla e pensarono a me per scrivergli delle canzoni. Tornato a casa dopo il concerto, che trovai molto emozionante, scrissi immediatamente Donna. Lei si innamorò del brano e da lì partì un po’ la sua nuova vita artistica. Con Donna ebbe un contratto con la Fonit Cetra e poi andò a Sanremo. Nel film tutto ciò non è stato proprio considerato. Con Mia ho lavorato 10 anni, fra canzoni e tournée. Quando era con me a Napoli sorrideva, andavamo a vedere le partite, amava la vita. Quando poi ha inciso un mio brano con me e Roberto Murolo, Cu ‘mme, a Napoli l’amavano tutti. Come se fosse nata qui».
Oltre ai già citati Murolo e Martini, anche Ornella Vanoni, Peppe Barra, Adriano Celentano, Andrea Bocelli, Gerardina Trovato (Il sole dentro) e Gennaro Porcelli hanno inciso tuoi brani. Chi secondo te ha colto al meglio le sfumature della tua musica?
«Credo che ognuno, con la propria personalità, abbia interpretato bene la mia musica. Mi hanno tutti dato soddisfazione (ride). Poi, sai, Celentano, con quella voce…».
Da te a Pino Daniele, dai fratelli Bennato ai Napoli Centrale, da Teresa De Sio agli Almamegretta, dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare/Peppe Barra a Nino Buonocore, Napoli è una città che ha dato molto alla musica italiana. Tu che la vivi in modo così intenso, chi sono i nuovi artisti su cui scommetteresti per il futuro?
«Giovani… humm… non saprei. Ragazzi bravi ce ne sono però, forse, sono troppo giovani e non sono maturi per cantare certe cose come le intendo io. Per cantare in napoletano devi essere un po’ sciamano, un po’ stregone. Devi avere sentimenti forti e quello che sento in giro è un po’ troppo moderno – e mi crea fastidio. Per me il moderno è datato, ha una vita breve – capisci? Ragazzi bravi forse ce ne sono ma molti sono nella “dimensione moda”. Poi, sai, io sono dei Quartieri Spagnoli… molti di questi ragazzi nuovi non arrivano dai vicoli come me o Pino Daniele, sono più borghesi. Sinceramente non ne vedo che appartengano alla mia “razza”».
Allargando il discorso, chi ti piace in questo momento nella musica italiana?
«Un paio di nomi che mi piacciono sicuramente sono Max Gazzè e Vinicio Capossela, perché non rientrano in codici commerciali e hanno un loro stile. Di Vinicio sono buon amico, qualche volta mi ha pure invitato a fare qualcosa insieme. Ricordo una cosa a Bari dedicata a Enzo Del Re, un cantastorie pugliese scomparso una decina di anni fa. Poi, sai, io sono legato a personaggi come Franco Battiato e Fabrizio De André. Oppure, ampliando il discorso alla musica anglosassone, amo molto Leonard Cohen, Lou Reed, Bob Dylan, Tom Waits, Nick Cave e un po’ tutto quel tipo di mondo».
Un’ultima curiosità. Poco dopo la morte di JJ Cale, con Gennaro Porcelli hai inciso una versione della tua L’erba cattiva dedicandola appunto a Cale, peraltro ri-arrangiata come l’avrebbe fatta JJ. Cosa ti legava particolarmente alla sua musica e quando lo hai scoperto?
«Uuuuu… io adoro la musica di JJ Cale! Lascia stare Cocaine… io sono sempre impazzito per il suo modo di cantare e di suonare in tutti i suoi album. La cosa è comunque nata perché Gennaro amava L’erba cattiva e per un po’ mi ha stuzzicato con l’idea di farne un arrangiamento come diceva lui. Una cosa tira l’altra e la dedica in memoriam a un maestro come Cale è venuta spontanea».
Foto: © Guido Harari
© Luigi Maffettone 2019