Questo non è un “coccodrillo”, quegli articoli che i giornali pubblicano quando muore qualcuno di famoso o di vagamente famoso – e che spesso sono un rosario Wikipedia farcito di bizzarrie assortite e di strafalcioni mortificanti. Questa è più che altro una “lettera d’amore” per il più grande giornalista musicale che abbia graziato il mondo della stampa – e, peraltro, ampia la sua opera non a carattere musicale, sempre di altissimo livello. Di un uomo che, come detto da lui stesso, «con più invecchi e con più vivi con fantasmi». Stiamo parlando, perbacco, di Nick Tosches, scomparso il 20 ottobre a Manhattan a causa di un tumore, pare. Il 23 avrebbe compiuto 70 anni. Qui in Italia, se va bene, i grandi media lo ricorderanno con ½ trafiletto – noi, che ci piace risalire la corrente anziché farcisi trascinare, gli dedichiamo quello che possiamo: una sentita rievocazione.
Un vero mito per chiunque interessato alla musica fatta carta stampata: scrittore sopraffino, guidato da un senso del rock and roll assolutamente travolgente per la parola, gusto della ricerca unico, penna capace di trascinarti nei meandri più sperduti del grande romanzo americano esploso con Chuck Berry e Elvis Presley. Avendo letto tutti, ma proprio tutti, i suoi pazzeschi libri ci sentiamo di dichiarare solennemente che il Signor Tosches era davvero guidato dalla cosiddetta white line fever, che nello slang dei camionisti americani è “la febbre della linea bianca” – partire e non fermarsi più, infervorati. White Line Fever che, fra l’altro, è un classico del repertorio di Merle Haggard – per rimanere alle stesse vertiginose altezze artistiche.
Il giornalista era un tipo sui generis, un po’ il Sam Fuller–Nick Ray–Sam Peckinpah–Don Siegel del giornalismo yankee. Finì le superiori a fatica, le università erano posti che gli facevano schifo e iniziò a scrivere di musica ancora adolescente sul finire degli anni 60, per poi finire nelle pagine di magazine come Fusion, Creem, Rolling Stone e Country Music dove i suoi scritti divennero leggendari, formando con Lester Bangs e Richard Meltzer la trimurti del giornalismo musicale senza compromessi, fortemente in contrapposizione a quello più di “regime” rappresentato da Greil Marcus e Jon Landau.
Il massimo del fulgore di Tosches però lo si ha con i libri, che inizia a scrivere a fine anni 70. Il primo è Country/The Twisted Roots Of Rock ‘n’ Roll (1977), iniziato come reportage per Country Music ma poi espanso a libro vista la quantità di materiale raccolto: come suggerisce il titolo, viaggio alle radici del rock and roll, nel mondo country e hillbilly, dove i paesaggi e le storie sono quelli dell’America rurale. Lettura a dir poco folgorante. Grandissimo biografo, il primo libro-ritratto scritto è Hellfire (1982), esplosivo racconto della vita del suo più grande idolo: Jerry Lee Lewis. Da più parti ritenuta la più importante biografia musicale scritta da chiunque, Hellfire è il perfetto archetipo del modo di scrivere white line fever: spedito, vorticoso, senza tregua, coinvolgente – tanto che quando inizi a leggerlo difficilmente smetti; e se lo fai ti resta solo una voglia, quella di azzannare di nuovo il libro per finirlo e magari rileggerlo ancora, in fretta. Fra l’altro, la bio è anche il testo su cui si baserà Great Balls Of Fire! (1987), film di Jim McBride con Dennis Quaid nei panni del Killer. Appena dopo, Tosches letteralmente on fire sfodera un altro classico assoluto, Unsung Heroes Of Rock N’ Roll/The Birth Of Rock In The Wild Years Before Elvis (1984), composto di ritratti a dir poco eccezionali del milieu che ha creato i presupposti della musica nuova: Big Joe Turner, Louis Prima, Ella Mae Morse, Charles Brown, Louis Jordan, Clovers, Screamin’ Jay Hawkins e un’altra dozzina. E pure questo, libro fondamentale – di quelli che bisogna proprio leggerli per farsi una vera cultura storico-musicale. Per chiudere con il campo arte dei suoni, essenziali anche le biografie Dino/Living High In The Dirty Business Of Dreams (1992), dove narra l’intera vita di Dino Crocetti in arte Dean Martin; e Where Dead Voices Gather (2001), in parte biografia del grande cantante minstrel show Emmett Miller e in parte studio ad ampio raggio sulla musica delle radici fra country, vaudeville e blues.
Nick Tosches però è stato un vero maestro pure come giornalista tout court. Le sue origini in parte italiane lo hanno portato a scrivere libri come Il mistero Sindona/Le memorie e le rivelazioni di Michele Sindona (Power On Earth) (1986), libro-intervista con protagonista il famoso faccendiere/bancarottiere/massone/criminale messinese (fra l’altro testo che anni fa ha fatto da base per un documentario RAI e altrettanto ampiamente citato da Carlo Lucarelli in una puntata di Blu Notte a RAI 3 dedicata ai misteri che circondano Sindona); e Trinities (1994), approfondissimo studio con concessioni volutamente romanzesche degli accordi e delle battaglie fra le mafie americana, siciliana e asiatica per il controllo sul traffico di droga. Dello stesso filone è King Of The Jews (2005), biografia del gangster ebreo-newyorchese anni 10 e 20 Arnold Rothstein, mentore di tipastri quali Lucky Luciano, Meyer Lansky, Frank Costello e Dutch Schultz. Fra i libri non-musicali, tuttavia, il più classico resta The Devil And Sonny Liston (2000), iperbolica biografia del famoso pugile afroamericano protagonista di epici scontri anni 1964-65 con Cassius Clay non ancora convertito all’Islam, scomparso misteriosamente nel 1970 – scomparsa che ha dato adito a forti ipotesi di omicidio, puntualmente esplorate da Tosches con il suo inimitabile stile.
Non si può tacere nemmeno sul Nick Tosches romanziere, con Cut Numbers (1987) che ha aperto la strada, fra gli altri, a In The Hand Of Dante (2002) e a Me And The Devil (2012), quest’ultimo romanzo con forti cenni biografici che, appunto, parla di un attempato newyorchese dei giorni nostri ormai stanco di tutto e scorbutico con tutti – che come un mantra ripete, come ci piace immaginare facesse lo stesso scrittore nella sua vita reale, che “voglio stare da solo – ma non essere dimenticato“. Praticamente l’essenza di una vita. Ultimo ma non meno importante, esiste anche il Nick Tosches che ha inciso dischi, naturalmente spoken word – roba come Blue Eyes And Exit Wounds (1998 – condiviso con il collega scrittore Hubert Selby Jr, quello di Last Exit To Brooklyn), Fuckthelivingfuckthedead (2001) e il recentissimo Autohagiography (2018). A questi, ci permettiamo di aggiungere pure un bootleg: Pop Songs, registrato nel 2001 al Centre Pompidou di Parigi dove a capo della band che lo accompagna troviamo Patti Smith, che tra chitarra e voce si lancia anche in intemerate al sax.
Come detto a inizio articolo, queste righe non vogliono essere un “coccodrillo” ma una lettera appassionata che magari possa smuovere 1-2-10-100 persone ad approfondire questo scrittore-giornalista sonante e astrale nel raccontare molto approfonditamente i propri interessi. Nick Tosches era uomo di penna a sfera che credeva nel «potere delle origini», come lui stesso raccontava in Country/The Twisted Roots Of Rock ‘n’ Roll; e che, anzi, sempre con parole sue dal forte sapore biblico, raccontava «quello che è stato fatto è ciò che sarà fatto: nulla di nuovo sotto il sole, tutto quello che crediamo sia originale o pensiamo di aver scoperto non è altro che aria e delirio delle nostre innocenza, ignoranza e arroganza – che tutto quello che si dice è stato detto, e detto meglio, già prima, con più forza, bellezza e purezza». Nick Tosches è insostituibile – sappiatelo.