Vendite dignitose, sebbene mai a livelli blockbuster. Eppure Mose Allison (1927-2016) è uno di quegli artisti chiave che se non vi fossero stati, la musica rock – lui che bianchissimo ed elegante tizio del Mississippi il quale ha sempre suonato un avveniristico impasto di note jazz-blues – non sarebbe stata la stessa. Chiedetelo a Van Morrison, Rolling Stones, Randy Newman, Tom Waits, John Mayall, J.J. Cale, Elvis Costello, Kinks, Leon Russell e Pete Townshend. Anzi, la parola lasciamola proprio a Townshend, come da suo intervento nell’imperdibile unica biografia di Allison, One Man’s Blues/The Life And Music Of Mose Allison (1995) di Patti Jones: «Di recente ho portato un amico a vedere Mose Allison. Il mio amico, alla fine dello show, mi ha guardato e ha detto “Adesso capisco!”, e io “Cosa capisci?”, e lui “Adesso capisco perché tu sia così!”. E ha colto: Mose è esattamente quello, una grande parte di quello che sono io. Quando i Who suonano Young Man Blues di Mose è con tremende forza e violenza. Ma dico una cosa, quella violenza non l’hanno inventata i Who – ma era già nella canzone di Mose. “A young man ain’t nothing in the world those days” è un’affermazione tremendamente brutale. Stare in uno stadio davanti a 85.000 persone e cantare “A young man ain’t nothing in the world those days” e sentire quegli 85.000 gridare “Yeah” – all’improvviso realizzi che la musica arriva da una persona ma è dentro tutti quanti». Parole che spiegano molto – e che convincono su tutta la linea.
Prima che Mose se ne andasse, discograficamente avevamo sentito parlare ancora di lui grazie a The Way Of The World (2010), eccellente commiato prodotto dal sempre elegante e pieno di gusto Joe Henry. Poi, dopo una vita vissuta di musica in maniera oltremodo importante, la grande mietitrice inesorabilmente ce lo ha portato via, a quasi 90 anni. Bello che ora giunga un tributo alla sua immacolata arte, i cui proventi finiranno nelle casse del Sweet Relief Musicians Fund, associazione che si occupa di dare assistenza medica a musicisti in difficoltà – e che negli anni 90 patrocinò importanti album-omaggio come Sweet Relief/A Benefit For Victoria Williams (1993) e Sweet Relief II/Gravity Of The Situation (1996) dedicato a Vic Chesnutt, dove si impegnarono importanti nomi quali Lou Reed, Michelle Shocked, Giant Sand, Madonna, Pearl Jam, Joe Henry, R.E.M., Smashing Pumpkins, Waterboys, Jayhawks e tanti altri. If You’re Going To The City: A Tribute To Mose Allison riparte da quei 2 tributi e riunisce un gran bel cast in onore del Maestro. E, tra l’altro, interessante notare che a pubblicarlo è la Fat Possum, etichetta fondata nel 1992 proprio in Mississippi e che negli anni ha pubblicato dischi di bei nomi quali R.L. Burnside, Junior Kimbrough, T-Model Ford, Robert Belfour, fino ai “colpi grossi” Black Keys, Solomon Burke e Iggy & The Stooges.
Mister Allison una volta disse che «Posso approssimativamente riconoscere ciò che faccio – ma realisticamente non ho idea di come descriverlo». Ed è per questo che qui dentro trovate musicisti che fra loro sembrano agli antipodi, come Iggy Pop e Richard Thompson, Frank Black e Jackson Browne – tutti attirati dal nome Mose Allison, miele per le api. If You’re Going To The City ne offre davvero per tutti i gusti, con per esempio il lìdér maximo Pixies (che a Mose dedicarono la potentissima Allison, ai tempi di Bossanova del 1990), che si cala nella parte alla grande: Numbers On Paper è flemmatica ma pure tutta spigoli, con Black che canta sussurrando come faceva Allison fra le sue inclassificabili note fra jazz e blues. Oppure l’ex Stooges, che con la torbida If You’re Going To The City, palesemente incisa durante le session del recentissimo album Free, fa lo slalom fra ritmi dispari e tromba tagliente mettendoci dentro un’interpretazione beffarda quanto piena di ghigni. Grande attore, l’Iguana.
Parchman Farm – classico assoluto annata 1958 (Allison prese spunto da un blues anni 40 di Bukka White, riscrivendolo), il pezzo che virtualmente ha segnato definitivamente un’intera generazione cresciuta fra Il giovane Holden di Salinger (1951) e Sulla strada di Kerouac (1957), che poi è quella che ha aperto autostrade ai rocker di cui parlava Townshend nella citazione di poche righe sopra. Farm qui la gioca nientemeno che Richard Thompson, accompagnato da George Galt all’armonica (rarità in un’incisione di RT – a memoria ricordiamo solo Cooksferry Queen nello splendido Mock Tudor del 1999): registrazione live acustica, con l’ex Fairport Convention che affronta il blues volutamente/fintamente come un collegiale al 1° giorno di scuola, con un tiro forte ma nervoso, quello di chi sa di essere ospite in terra straniera, tipo un folk-rocker d’Albione che si ritrova nelle paludi del Grande Fume a 12 battute che attraversa l’America. Non poteva mancare il fratello di spirito di RT, Loudon Wainwright III: Ever Since The World Ended, chitarra e voce, perfetta con l’umorismo che la pervade, sorniona come solo chi sa dissimulare le proprie intenzioni sotto un’apparenza indifferente. Poteva mancare Elvis Costello? Certo che no – tanto che si accaparra Amy Allison, figlia di Mose, per il sensuale duetto Monsters Of The Id, uno di quei pezzi che alla prima nota risuona insindacàbilmente allisoniano (coincidenza: sebbene non centri nulla con Mose, la prima hit di Mister MacManus s’intitolava, toh, Allison).
Eccelle anche Charlie Musselwhite, qui a divedere i crediti con Ben Harper, che spiega il suo way of life con il groove di Nightclub – metteteci il tocco inconfondibile della sua harp e il gioco è fatto, in onore del suo esimio corregionale (anche Musselwhite è from Mississippi). Bonnie Raitt, come Thompson anch’ella dal vivo, con Everybody’s Crying Mercy butta lì uno slow blues che le si infila come un guanto – repertorio top onorato al meglio. Jackson Browne in If You Live si fa quasi fatica a riconoscerlo per come si è tuffato nel mondo di Mose – non fosse per la voce sommessa, potrebbe essere opera del Tom Waits più incline alle musica del Diavolo. Your Mind Is On Vacation, altra meraviglia penned by Allison, è affidata a Taj Mahal – elegante, linearmente blues… come la faceva Mose, però, resta un’altra cosa. Rimandato. Wild Man On The Loose affidata ai fratelli Blasters per-grazia-divina, Phil & Dave Alvin, è tirata, rocciosa e soprattutto con la magnifica voce di Phil a dettare legge fra le note di un capolavoro. Chapeau! Stop This World, protagonista Chrissie Hynde in libera uscita dai Pretenders, è un buon esercizio di stile – filler di buona fattura. Per niente male I Don’t Worry About A Thing starring Peter Case: l’ex Plimosouls camuffa la voce su toni rochi, jazza a dovere e convince. Impossibile non citare, infine, l’eccellente e in punta di dita dissonante My Brain pensata da Robbie Fulks, che reinventa il tutto sulle corde di un contagioso vaudeville country.
L’ultimo comandamento è giusto lasciarlo al compianto Mose Allison, che nel già citato libro del 1995 spiegava molte cose con incantevole, umoristica lucidità: «Vi sono un sacco di miei estimatori che mi raccontano le loro impressioni. Per esempio, tempo fa uno di essi mi si avvicinò dicendo “Sei stato socialmente rilevante ben prima di Bob Dylan, hai fatto satira ben prima di Randy Newman e sei stato stronzo ben prima di Mick Jagger – com’è possibile che tu non sia una star?” La mia risposta immagino sia stata franca, “Credo di essere stato fortunato, suppongo”». Se questo non è stato un genio…
Foto: © Michael Wilson