Fra i diversi colpiti a morte dal Covid 19 nel mondo della musica non vi è è alcun dubbio che Hal Willner (6 aprile 1956 – 7 aprile 2020) sia stato una fra le perdite più dure da accettare, a cominciare dal fatto che non si avevano notizie che il 64enne artista avesse gravi problemi di salute con cui egli stesse convivendo. Ma così è la vita. Resta che, comunque, il virus ci ha privato di una delle menti più floride del “dietro le quinte” della musica americana degli ultimi 45 anni anni: produttore di gente come Lou Reed, Allen Ginsberg, Marianne Faithfull, Gavin Friday, Leon Redbone e William S. Burroughs; Geppetto dietro brillantissimi concerti/album tributo dedicati a Leonard Cohen, Bill Withers, Harry Smith, Randy Newman, Walt Disney, Harold Harlen, Kurt Weill, Thelonious Monk, naturalmente l’inseparabile amico Reed nonché lo stimatissimo Friday, Tim Buckley, Edgar Allan Poe, Doc Pomus, Shel Silverstein, Johnny Depp e la serie Pirati dei Caraibi, Bob Dylan, addirittura il Marchese de Sade; responsabile musicale della famosissima trasmissione tivù d’Oltreoceano Saturday Night Live a cominciare dal 1980; “sarto in 7 note” che ha messo insieme colonne sonore a dir poco eccezionali come Short Cuts/America oggi (1990 – il suo capolavoro?), Kansas City (1996), The Million Dollar Hotel (2000) e Lawless (2012). Facile capire che abbiamo perso un pezzo da 90. I-n-s-o-s-t-i-t-u-i-b-i-l-e, recita lo spelling.
Hal Willner
Attivo com’era, prima che la bestia ce lo portasse via, aveva portato a termine uno dei suoi dischi-tributo sui generis, di quelli che non sono concepiti come compitino nel nome di questo o di quello ma opere strutturate in maniera artistica e saldamente lontane dal mainstream, dove il (geniale) trucco risiede nel conciliare l’inconciliabile. Come, difatti, questo AngelHeaded Hipster: The Songs Of Marc Bolan & T. Rex testimonia nel nome della musica del grande glam rocker inglese scomparso nel lontano 1977. Ed è curioso notare che già alcuni lustri fa un altro “irregolare” come John Zorn avesse approntato un album tributo dedicato a Marc Bolan e ai T. Rex, quel Great Jewish Music: Marc Bolan (1998) che vedeva, fra gli altri, partecipare Medeski Martin & Wood, Marc Ribot, Tall Dwarfs, Sean Lennon & Yuka Honda, Arto Lindsay, Gary Lucas e Melvins. Se non lo conoscete, cercatelo: ne vale la pena – come vale la pena tutta la serie al tempo concepita da Zorn, che vedeva trattati anche Serge Gainsbourg e Burt Bacharach.
Marc Bolan
Presentato da una copertina a dir poco splendida che più Bolan di così si muore, AngelHeaded Hipster (anche il titolo non vi sembra bellissimo? A noi pare proprio molto… contando pure che si tratta di un verso tratto dal poema Howl di Allen Ginsberg) segue alla perfezione il concept che sta dietro alle operazioni di Willner fatte in passato – ossia sublimare l’artista trattato e coinvolgere un po’ di tutto dello scibile musicale, centrifugandolo come solo lui sapeva fare. A tal proposito, le note di copertina sono eloquenti – e ci informano che: “Hal Willner ha lavorato su AngelHeaded Hipster per diversi anni, con session attraverso i continenti, da New York, Los Angeles e New Orleans a Londra, Parigi e Berlino. L’album presenta ospiti speciali musicisti come Donald Fagen, Mike Garson, Bill Frisell, Wayne Kramer, Van Dyke Parks e Marc Ribot, con arrangiamenti di Thomas Bartlett, Steven Bernstein, Eli Brueggemann, J.G. Thirlwell e Steve Weisberg. Ogni brano rivela un Marc Bolan diverso e offre un omaggio unico al musicista, scrittore, poeta e compositore poliedrico“. E così è, senza possibilità di smentita.
Bolan ed Elton John a Top Of The Pops, 1971
L’album, che dura la bellezza di 1 ora e 40 minuti abbondanti, di momenti pregevoli ne regala molti – e la cosa migliore è buttarvisi dentro alla rinfusa. Per esempio, il blues cosmico di Hippy Gumbo che era in origine, la splendida Beth Orton lo reinventa fra jazz, Albion folk e suoni obliqui. Siamo anche certi che mai avreste pensato che Beltane Walk dei T. Rex potesse veleggiare fra i mari caraibici e le foreste centroamericane: Van Dyke Parks e la sua (splendida) protetta Gaby Moreno, guatemalteca che da anni risiede in USA, riescono nell’impresa – facendo godere non poco. Il Soft Cell Marc Almond drammatizza, fra tormenti & toreri, Teenage Dream con vibrante tocco camp. Gavin Friday, il principe d’Irlanda già frontman dei Virgin Prunes cui Mister Hal produsse i primi lavori in solo, gli irrinunciabili Each Man Kills The Thing He Loves (1989) e Adam ‘n’ Eve (1992), lo troviamo ben 2 volte: prima porta al termine della notte The Leopards, fra note oscure e tono confidenziale; poi, con l’ex Lone Justice Maria McKee regala il medley tutto enfasi teatrale She Was Born to Be My Unicorn/Ride A White Swan.
Correva l’anno 1971 e a Top Of The Pops, istituzione musicale della BBC, i T. Rex si presentano a lanciare Bang A Gong (Get It On), una delle perle di Electric Warrior – e chi si presenta, per la sorpresa di tutti, ad accompagnarli al piano? Naturalmente il futuro Sir Reginald Dwight aka Elton John, che qui fa lo stesso solo che il piano lo suona per i U2, willnerizzati a dovere senza chitarre delay ma, per esempio, con sezione fiati volutamente tronfio–glam e con Bono Vox alla voce che Bolan lo accarezza come si fa con i miti di quando eri un giovin nessuno con tante speranze e, probabilmente, molte idee confuse. Il genio di Willner s’inventa il colpo gobbo, ovvero una versione “reprise” posta quasi a fine del doppio album, dove la carta estratta si chiama David Johansen, con il sempiterno bambolotto newyorkese che gioca a fare un po’ Louis Prima e un po’ il suo vecchio alter ego Buster Poindexter. Giù il cappello al mago Hal, che con queste trovate ci stende ogni volta.
Il singer-songwriter e chitarrista inglese con David Bowie, 1977
Un posto speciale se lo merita Nick Cave, a dir poco eccezionale nell’interpretazione della signature song di Marc Bolan: Cosmic Dancer: cover intensa, ricercata, arrangiata in modo a dir poco sontuoso con orchestra – e che Willner decora con preziosismi tutt’altro che fini a se stessi. Perfetto anche il Jane’s Addiction in libera uscita Perry Farrell, che con Rock On si diverte a fare il surfer glam – e l’onda, potete giurarci, la cavalca a piacimento. Pilgrim’s Tale, che all’epoca era roba tipo T. Rex in piena sbornia Incredible String Band (una delle grandi passioni di Bolan e, toh, del “concorrente” David Bowie…), qui rivive in un splendido duetto fra 2 che mai avremmo immaginato duettare: Victoria Williams e Julian Lennon. Duetti? Più che un peccato di gola quello fra un altro Lennon, Sean, e Charlotte Kemp Muhl, che in Mambo Sun gigioneggiano amabilmente nei panni di novelli Serge Gainsbourg et Jane Birkin. Non poteva mancare Joan Jett, che già al tempo delle Runaways il santino dei T. Rex se lo portava ovunque – Jeepster le calza come un guanto o come un collant, a scelta. Ultima menzione, ma non per ultima per scala dei valori, a Todd Rundgren con Donald Fagen (Steely Dan) – che reinventano la stupenda Planet Queen in un jazz-musical a dir poco seducente. Tocco da veri maestri. Sappiate solo che in AngelHeaded Hipster incontrerete anche Lucinda Williams, Elysian Fields, Nena, Jesse Harris, Elysian Fields, Devendra Banhart, Kesha, Peaches e diversi altri – mossi a piacimento dal burattinaio Hal Willner, uomo di grandi risorse creative che una ne pensava e cento ne faceva. Manca, mancherà.