Howe Gelb sembra avervi preso gusto nel re-incidere – anzi, re-immaginare i suoi esordi. Operazione fra il bizzarro e l’acuto che può permettersi solo l’uomo capace di suonare i Black Sabbath come farebbe Thelonious Monk se vivesse a Tucson, Arizona. Lo scorso anno i Giant Sand diedero alle stampe Returns To Valley Of Rain, la decostruzione e reinvenzione del loro leggendario album di debutto, Valley Of Rain (1985). Quest’anno regalano il bis, con il sophomore Ballad Of A Thin Line Man (1986) che diventa in un batter di ciglia Recounting The Ballads Of The Thin Line Men (notare il plurale). In altre parole, i meandri della mente dissociata, anticonformista, volubile, spesso illogica, mutevole e lunatica dell’oramai ultra 60enne Mister Gelb sembrano sempre capaci di partorire quell’idea dinamica che attira i vecchi fan sempre al suo cospetto. E sembra ieri, a cavallo fra anni 80 e 90, che i Giant Sand erano il nuovo rock americano – ossia la metamorfosi è quella di diventare un classico rimanendo un culto.

Fate attenzione: con Recounting The Ballads Of The Thin Line Men state affrontando un album ex novo, non una ristampa o una goffa re-incisione, dove ad accompagnare Howe vi sono i fidi Tommy Larkins (batteria) e Thøger Lund (basso), da un po’ in pianta stabile nell’orbita del gruppo che, del resto, negli anni ha coinvolto una pletora di musicisti (per esempio, rammentiamo che i Calexico sono una costola Giant Sand). Tanto per iniziare, nel disco del 1985 le cover erano un paio e già una qui salta, nientepopodimeno che All Along The Watchtower di Bob Dylan in un’inusitata quanto creativa interpretazione potente come una molotov. Resta, invece, forse il più grande anthem del punk americano, quella You Can’t Put Your Arms Around A Memory di Johnny Thunders (New York Dolls) che negli anni abbiamo sentito anche in grandi versioni fatte da Ronnie Spector, Willy DeVille e Guns N’ Roses (noticina: la prima versione di Thunders vedeva ospite Peter Perrett sia alla chitarra sia alla voce). Qui Gelb & Co vi danno dentro per non sfigurare: la foga è la stessa della prima versione, pietrosa e angolare, solo che senti anche come Howe sia un musicista che nel tempo ha sviluppato davvero finezze e sofisticazioni di prim’ordine. Anzi: «Allora Memory la facemmo come un lamento da bar, qui è un rombo funereo che soffia nell’aria fra brandelli di celebrazione punk», parola di Gelb. Il resto dell’album, come dice sempre lo stesso leader, è «picking over the bones and making a whole new soup» – raccattare le ossa e farci una completamente diversa zuppa.

Nel dettaglio, i Sand-anatic saranno contenti di vedere spolverato un inedito tratto dal primo Ballads (sebbene già apparso in una vecchia ristampa con bonus material), Tantamount presentato addirittura in doppia versione: la prima talkin’ e spedita come un treno merci, la seconda (battezzata come Tantamount Blast) stridente e aguzza. Altro quasi-inedito è Reptillian (la versione leftover la trovate nella compilation Giant Sandwich, uscita nel 1989): basso pulsante Motown ma poi il solito cubismo in musica dei Vermi Giganti con ampie pennellate molto Neil Young. A proposito, avviso ai naviganti: contrariamente a quanto molti credono, Giant Sand non sta per Sabbia Gigante bensì è l’abbreviazione di Giant Sandworn, come si chiamava all’inizio la formazione. Giusto un’informazione di servizio, che non si sa mai.

Ma continuiamo. Se dediti al culto Sand, senz’altro Desperate Man è un piccolo grande carme, con tanto di nod a Bob Dylan (“I’ve got Dylan fillin’ in my stereo“) e qui con tanto di Winston Watson ospite alla batteria, beat-man dei primi giorni Sand che poi per diverso tempo negli anni 90 è stato nel gruppo del Nobel from Minnesota (per esempio, nell’Unplugged pubblicato nel 1995 trovate lui a battere sulle pelli): suono potente per una versione che, in verità, poco si discosta dall’originale e che sciabola sempre un gran riff di chitarra. Forse pochi rammentano che nell’originale a cantare la peraltro sua The Chill Outside vi era Paula Brown – che qui ritorna alla scena del crimine in una rimpatriata riuscitissima. Brown che con Gelb riprende pure Graveyard, burbera ballata che non perde il tono svagato originario. A proposito di Bob Dylan: la vecchia versione di Who Am I? suonava arruffata e high da buonalaprima come qualcosa da Another Side Of Bob Dylan (1964), mentre qui il tocco è quello di Oh Mercy (1989) – colpi d’estro made in Tucson. Altra spettacolare sberla in 7 note resta A Hard Man To Get To Know, rantolo che sembra un po’ i Pere Ubu ma che pare pure anticipare i Pixies (“Maybe you get arrested/Maybe you only get shot down” – recita acre il testo) e che svanisce in una coda psichedelica fatta di un alquanto sporadico scenario vento-nebbia. Thin Line Man poderosa allora, poderosa adesso: uno dei pezzi manifesto dei Giant Sand, una specie di bufera che arriva in una ghost town del Vecchio West – e non fa altro che rabbuffare disordinate sterpaglie. Hallelujah!