Cantautore o piuttosto – come lui stesso si definirà – «cantante rock che dice pane al pane vino al vino, senza tante fregnacce» – Eugenio Finardi, classe 1952, si affaccia sulla scena milanese negli anni 70 da figlio d’arte: il padre è un tecnico del suono; la madre, americana, una cantante lirica. All’epoca il genere musicale più in voga è il Progressive, ma Eugenio se ne allontana cercando di unire la canzone d’autore al rock. Dopo 1 anno in tour, con Alberto Camerini e Walter Calloni forma un supergruppo che include Paolo Tofani, Ares Tavolazzi e Patrizio Fariselli degli Area, il bassista Hug Bullen (già collaboratore di Ivan Graziani) e Lucio “Violino” Fabbri, futuro PFM. Insieme sono gli autori di quello che diventerà uno dei manifesti del primo rock italiano, a partire da Musica ribelle e La radio (dall’Lp Sugo del 1976), inno alle emittenti libere:
(“Amo la radio perché arriva dalla gente/entra nelle case e ci parla direttamente/e se una radio è libera/ma libera veramente/mi piace ancor di più/perché libera la mente”)
La radio, secondo Eugenio Finardi, è un mezzo di comunicazione che (se libero) fa sognare, consente d’imparare, informa le persone rendendole partecipi della realtà italiana (si parli di cronaca nera, rosa, gossip o politica), rallegra le case con la sua musica. E poi la si può ascoltare ovunque: scrivendo, cucinando, pranzando, cenando. Finardi identifica la radio come alternativa alla tv, che al contrario rende immobili, schiavi di palinsesti predeterminati che non danno spazio al libero pensiero. Certo, non tutte le radio sono libere ma altre lo sono; e negli anni ’70 sono in costante aumento. È alla radio libera che il nostro “cantante rock” si rivolge:
(“Con la radio si può scrivere/leggere o cucinare/non c’è da stare immobili/seduti lì a guardare/e forse proprio questo/che me la fa preferire/è che con la radio non si smette di pensare“)
Partendo proprio dalla radio, proveremo allora a farvi viaggiare e sognare. Rimanendo in tema di pensiero, come non nominare La scuola del 1977, dall’album Diesel? Quante volte da ragazzi ci siamo sentiti ripetere che andarci era importante, e che quegli insegnamenti un giorno ci sarebbero serviti per poter lavorare…
(“Ci dicevano, insistevano, di studiare/che da grandi ci sarebbe stato utile sapere/le cose che a scuola andavamo a imparare/che un giorno avremmo dovuto anche lavorare…”)
E avevano ragione! La cultura e l’istruzione sono alla base di tutto e il sapere non ci rende schiavi! Vista in questa prospettiva, la scuola rappresenta una delle più importanti palestre di vita che ha come obbiettivo quello di preparare i ragazzi ad affrontare il mondo, che si tratti di vita quotidiana o lavorativa. Sfortunatamente, però, non sempre è così: il divario fra quello che i professori cercano di insegnare con la teoria e ciò che effettivamente i ragazzi si troveranno di fronte è ancora oggi enorme.
(“Infatti mi ricordo/mi sembrava un po’ strano/passare quelle ore a studiare latino/perché allena la mente a metter tutto in prospettiva/ma io adesso non so calcolare l’iva”)
C’è poi chi non ha creduto fino in fondo a quegli insegnamenti e ne ha preso le distanze privilegiando strade più vicine alla realtà; e c’è chi è andato avanti perché interessato allo studio, o perché sperava di trovare un lavoro degno. Ma in un mondo fatto di spintarelle e raccomandazioni non sempre essere uno studente modello è sinonimo di lavoro garantito: c’è comunque il rischio di rimanere precario a vita!
(“E c’è chi è stato promosso/c’è chi è stato bocciato/chi non ha retto la commedia ed è uscito dal gioco/ma quelli che han studiato e si son laureati/dopo tanti anni adesso sono disoccupati”)
Finardi, poi, conclude dicendo quello che avrebbe voluto facesse la scuola: preparare alla vita e insegnare a cavarsela in ogni situazione; coltivare le proprie passioni; mostrarsi ricettivo nei confronti del prossimo, ma soprattutto non smettere mai di pensare e arricchire la propria mente. Lui stesso ammette di essersene fregato, di non aver studiato quasi mai… Ma ascoltava i dischi, si teneva informato e questo gli ha consentito di cavarsela.
(“Io volevo sapere la vera storia della gente/Come si fa a vivere cosa serve veramente/Perché l’unica cosa che la scuola dovrebbe fare è: Insegnare ad imparare […] Perciò va’ pure a scuola, per non far scoppiar casini/Studia matematica, ma comprati un violino/Impara a lavorare il legno, ad aggiustar ciò che si rompe/Che non si sa mai, nella vita un talento serve sempre”)
Ma non c’è solo protesta o ribellione nei suoi pezzi: vengono anche toccate “corde” che arrivano dritte al cuore, portandoci a rivivere le prime avventure amorose come fa in Non è nel cuore (ancora da Diesel), dove l’ascolto ci catapulta con il pensiero a quella prima, fatidica volta. Quante paure, quante emozioni, quanta attesa per un atto che poi spesso ha finito con il deluderci…
(“La prima volta che ho fatto l’amore/non è stato un granché divertente/ero teso ero spaventato/era un momento troppo importante/da troppo tempo l’aspettavo/e ora che era arrivato/non era come nelle canzoni/mi avevano imbrogliato…”)
Con il tempo (se la persona è quella giusta) tutto diventa magico, si trasforma in emozione pura, s’impara a riconoscersi dall’odore, ad annoiarsi insieme. Già, perché in amore esiste la gioia ma anche la noia.
(“Ma l’amore non è nel cuore/ma è riconoscersi dall’odore/E non può esistere l’affetto/senza un minimo di rispetto/e siccome non si può farne senza/devi avere un po’ di pazienza/perchè l’amore è vivere insieme/l’amore è sì volersi bene /ma l’amore è fatto di gioia /ma anche di noia”)
È un po’ come costruire una casa: prima si gettano solide fondamenta, poi “mattone dopo mattone” la si struttura. Non importa se a volte ci sono alti e bassi: l’amore, se c’è, è bello viverlo! Il massimo coronamento del sentimento lo si raggiunge quando nella coppia ognuno gioca un po’ tutti i ruoli: amica, amante, donna, uomo, perfino maggiordomo… È una dichiarazione d’amore quella del cantautore con Patrizia (da Finardi, 1981), canzone che ogni donna vorrebbe sentirsi dedicare…
(“Ti amo perché sei una donna/ma anche un vero uomo/un’amica un socio/a volte un maggiordomo/perchè giochi tutti i ruoli/ma ti piaci in uno solo/quella di donna/con vicino il suo uomo/e amo il tuo sapore/di fragole e di panna/d’estate d’erba appena calpestata/ti amo perché sei solare/perché sai far l’amore/ti amo per come mi ami tu…”)
Ma per un amore vissuto ce n’è sempre uno da ricordare; e insieme ad esso il rimpianto per non essere stati in grado di dichiararsi: forse per troppa timidezza, forse perché non ci si sentiva all’altezza, o semplicemente per quel “gioco” naturale dell’uomo che viene paralizzato dalla paura di rivelarsi. È quello che Eugenio ci racconta in Katia (dall’album Acustica, 1993) dove primi amori, batticuori, sguardi e delusioni la fanno da padroni. La domanda è: in amore vince chi scappa, chi si dichiara o chi, non ritenendo di essere all’altezza, non ci prova nemmeno?
(“La vedevo tutti i giorni andando a scuola/non sono mai riuscito a dirle una parola/la guardavo camminare da lontano/con i suoi capelli biondi e i libri in mano”)
Non bisognerebbe mai lasciar nulla di intentato ma quando si è ragazzi, si sa, ci si scontra con un sentimento talmente grande e nuovo che finisce con l’annebbiarci la mente. Nel caso specifico di Katia, l’amore non verrà mai dichiarato ma vincerà la timidezza e la paura di non riuscire a sopportare un rifiuto. Allora non resterà altro che ammirarla da lontano e cercare goffamente di strapparle un sorriso… Ma se poi nelle vicinanze spunterà un ragazzino che di cognome fa Sansone, ogni tentativo risulterà vano….
(“Io cercavo di attirare la sua attenzione/ero un bambino goffo e non sapevo come/e poi c’era un tipo che si chiamava Sansone di cognome che aveva gli occhi verdi e giocava da dio a pallone […] Che giocava ancora meglio/se sapeva che lei lo guardava/e le brillavano gli occhi quando le sorrideva”)
Non c’era scampo… Impossibile reggere il confronto… Lui era troppo bello, sportivo, sicuro di sè! E poi un giorno, ascoltando una canzone con qualche luna in più sulle spalle, si ripensa ai bei tempi andati e le domande si affollano alla mente. Chissà come sarà diventata Katia: si sarà sposata? Quanti figli avrà? Ma soprattutto chissà come sarebbe stato vivere insieme a lei quel sentimento!
(“Chissà adesso tu come sarai/se ti sei sposata e quanti figli hai/se sarai felice e ti ci riconoscerai/se ti brilleranno gli occhi e se sorriderai/pensando a quel ragazzo/che non ti ha parlato mai”)
“Anch’io ho avuto la mia ‘Katia’. E mi sono perfino iscritto a un corso di studi di cui non mi importava un bel niente pur di riuscire a incontrarla. E come quel goffo ragazzino, non mi sono mai dichiarato. Adesso, a distanza di tanto tempo l’ho rincontrata, ci siamo confidati e la beffa è stata che anche lei per me provava lo stesso sentimento!” (Crise)