Per la musica d’autore, la Lombardia è stata una vera fucina di artisti. Vale quindi la pena soffermarci ancora su questa regione. Dopo aver raccontato di Giorgio Gaber, viene naturale volgere lo sguardo verso la casa del grande Medico Fantasista – come si era fatto scrivere sulla carta d’identità – Enzo Jannacci (1935-2013). Milanese, dopo la maturità conseguita proprio insieme a G.G. si iscrive alla Facoltà di Medicina e al Conservatorio diventando contemporaneamente medico e musicista. A chi gli chiede come faccia a conciliare entrambe le professioni risponde: «Per andare a cantare devo prendere le ferie. Io le vacanze le passo così. I miei colleghi vanno a divertirsi ai congressi, a parlare di trapianti e roba del genere. Io invece, povero disgraziato, canto».
Come Gaber anche Jannacci appartiene alla “specie” dal gene comico. E come il suo compagno di scuola è ironico, reale, schietto. A volte il suo “sputare” in faccia la realtà lo rende un personaggio scomodo, ma non se ne fa mai un problema. Quando qualcuno lo incontra per strada, alla domanda «Lei è Jannacci?» lui replica «Si, ma non è colpa mia!». E magari è risultata scomoda anche la canzone con cui diamo inizio a questo viaggio: Ho visto un Re (scritta da Dario Fo e Paolo Chiari nel 1966) che lui vuole presentare a Canzonissima 69 ma la RAI si oppone.
Accompagnati da un insolito coro formato da Cochi, Renato e Giorgio Gaber, Jannacci e Fo danno vita a una “canzone popolare finta”, una ballata apparentemente ironica ma che in fondo tocca argomenti impegnati e importanti legati al mondo del lavoro e a quella catena di potere che tende a sottomettere i più deboli. Protagonisti, un Re derubato dall’Imperatore:
(“Ho visto un re/Sa l’ha vist cus’è?/Ha visto un re!/Ah, beh; sì, beh/Un re che piangeva seduto sulla sella/piangeva tante lacrime, ma tante che/bagnava anche il cavallo!/Povero re!/E povero anche il cavallo!/È l’imperatore che gli ha portato via un bel castello…”)
Un Vescovo espropriato dei propri beni dal Cardinale:
(“Ho visto un vesc…/Sa l’ha vist cus’è?/Ha visto un vescovo!/Ah, beh; sì, beh/Anche lui, lui, piangeva, faceva/un gran baccano, mordeva anche una mano/La mano di chi?/La mano del sacrestano!/Povero vescovo! /E povero anche il sacrista!/Ah, beh; sì, beh/È il cardinale che gli ha portato via un’abbazia…/Oh poer crist!/…di trentadue che lui ce ne ha/Povero vescovo!/E povero anche il sacrista!”)
Re, Vescovo e Cardinale, attraverso una specie di “catena di potere umana”, si scagliano contro un ricco che tenta di sfogare il proprio dispiacere davanti a un bicchiere di vino:
(“Ho visto un ric…/Sa l’ha vist cus’è?/Ha visto un ricco! Un sciur!/ S’…Ah, beh; sì, beh./Il tapino lacrimava su un calice di vino ed ogni go, ed ogni goccia andava…/Deren’t al vin?/Sì, che tutto l’annacquava!/Pover tapin!/E povero anche il vin!/Ah, beh; sì, beh/Il vescovo, il re, l’imperatore/l’han mezzo rovinato/gli han portato via/tre case e un caseggiato/di trentadue che lui ce ne ha/Pover tapin!/E povero anche il vin!”)
E poi c’è il contadino, a sua volta impoverito dai potenti che gli portano via quel poco da lui posseduto. E visto che di sua proprietà ha solo un cascinale, una mucca e qualche maiale, gli confiscano cose improponibili e di basso valore economico ma per lui beni essenziali. E volendo perpetuare in questo sarcastico gioco di potere, gli portano via anche la consorte:
(“Ho vist un villan/Sa l’ha vist cus’è?/Un contadino!/Ah, beh; sì, beh/Il vescovo, il re, il ricco, l’imperatore, persino il cardinale, l’han mezzo rovinato/gli han portato via: la casa, il cascinale, la mucca, il violino, la scatola di kaki, la radio a transistor, i dischi di Little Tony, la moglie!”)
Ma alla fine di tutta questa storia salta all’occhio la diversa reazione di fronte alle cose da parte delle varie classi sociali: se i ricchi e i potenti appena vengono toccati i loro interessi, anche in misura minima, piangono, i contadini (i villani) anche quando vengono deprivati di beni essenziali devono ridere perché “il nostro piangere fa male al re/fa male al ricco e al cardinale/diventan tristi se noi piangiam!”.
Quello di Jannacci non è sarcasmo, come dirà lui stesso in un’intervista – preferirebbe tirar pedate in faccia, piuttosto che utilizzare del sarcasmo – Affina semmai le illusioni e i prodotti del nonsense per lasciare a noi ascoltatori l’arduo compito di trovare il senso delle cose. Così credo faccia in Parlare con i limoni (1987). Se ci si ferma alla superficie delle sue parole potrebbe sembrare una canzone senza tanto senso, ma in fondo non è così. La sua si rivela alla fine una denuncia contro il basso contenuto delle canzoni, forse presagendo ciò che sarebbe avvenuto in futuro; una denuncia contro quelle produzioni discografiche sempre più attente ai “rumori/musica” e a divulgare “supercazzole” di ogni genere piuttosto che smuovere le coscienze con canzoni/poesie di alto spessore culturale. Forse già allora Enzo J. si era accorto della grande “carestia” di valori che avrebbe colpito il nostro Paese.
(“Eh eh eh che bella quella canzone?/che parla della pioggia, della Francia e non fa confusione/eh? In mezzo a tutta ‘sta ignoranza è facile anche dire/è proprio necessario poi?/roba che mi domando e poi?/che è vero, sì che è vero è vero è vero/che verrà il giorno che spariranno tutti i rompicoglioni, sì/io sarò pronto lì a parlare con i limoni”)
In questa triste disanima di come già allora fosse difficile farsi accettare con le canzoni, J. inserisce anche i suoi amici Giorgio Gaber e Luigi Tenco che non si sono certo limitati a cantare semplicemente “I love you”.
(“Quanta fatica per farsi accettare con le canzoni/al mio amico Tenco non gli han fatto vedere neanche i limoni […] al mio amico Gaber non gli han mai perdonato di aver fatto canzoni/uno che è giallo, uno che è verde/uno che grida ma non si arrende/uno che piscia da sotto in su/e tutti che cantano I love you!”)
E poi c’è Veronica, 1965, testo di Dario Fo e del giornalista-radiocronista-telecronista sportivo Sandro Ciotti:
(“Veronica/amavi sol la musica sinfonica/ma la suonavi con la fisarmonica/Veronica, perchè?“)
Lascio a voi lettori/ascoltatori il compito di interpretare le parole. Sicuramente non diceva “I love you” ma era pur sempre quella una forma “d’amore”. E chi non ha mai avuto una Veronica nella vita?
(“Veronica, il primo amor di tutta via Canonica/con te, non c’era il rischio del platonico/Veronica, con te in pé…!“)
Affiancato da un altrettanto geniale Fo, descrive le avventure amorose di una generazione alle prese con i primi “fuochi” ormonali: e Veronica era in tal senso una “benefattrice” che spegneva gli ardori degli adolescenti alla prime armi.
(“Veronica, da giovane, per noi eri l’America/davi il tuo amore per una cifra modica/al Carcano, in pé, ma…“)
Certo per lei la comodità non era di casa: non c’erano camere d’albergo nè letti comodi, ma l’atto veniva consumato al cinema. In piedi.
(“Veronica, l’amor con te non era cosa comoda/nè il luogo, forse, era il più poetico/al Carcano, in pé; ma…/Ti ricordo ancora come un primo amore: lacrime, rossore fingesti per me/Mi lasciasti fare senza domandare/quello che pensassi di te…”)
Chiudiamo con I soliti accordi, brano portato al Festival di Sanremo nel 1994 insieme a Paolo Rossi.
(“E in fondo alla strada (chi è che c’è?)/ci son tre ladroni (ah, vabbè)/sembravano onesti, sembravano buoni/eran solo furboni/Il primo contava (Ma son tutti di mia moglie!)/il secondo sudava (tra un ballo, una bionda e un panino)/il terzo spiegava, ma cosa spiegava/la rava e la fava! (Che storia è?)”
Come non dar torto a questi primi versi… il “cancro” della politica era ed è tutt’ora questo: parlano, promettono, ma non mantengono.
(“E in fondo la storia (dai, spiegamela!)/è sempre la stessa (cosa ti avevo detto, io?)/c’è uno che grida, che grida e fa i versi da quella finestra/Si cambiano i nomi/rimangon bastardi/tu guarda alla radio, le solite facce/i soliti accordi (Quali accordi?)/I soliti accordi”)
Una denuncia – direi attualissima – alla scarsa credibilità della politica nel nostro Belpaese. La situazione è espressa benissimo dal ritornello, lo “spartito” passa di mano in mano ma restano “i soliti accordi” a farla da padroni. Cosa c’è da aggiungere se non complimentarsi con i 2 autori? Coraggiosi, sfrontati, senza prendersi mai troppo sul serio si sono esibiti davanti al pubblico sanremese composto per la maggioranza da personaggi facenti parte proprio di quel Sistema.
Concludo con un’ultima frase – una delle tante:
(“In mezzo alla strada (Cosa c’e`?)/son tre coi forconi (ah, vabbè)/ma i piccoli ladri li impiccano sempre/i grandi ladroni”)
“Io in fondo alla strada ho trovato l’umiltà, vada sempre come vada ma non è finita qua!” (Crise)