Dal collettivo Banchi Nuovi negli anni 70 al nuovo album Lo chiamavano vient’ ‘e terra, vi è tutta una vita che corre impermeabile alle mode, quanto fatta di saldissima integrità artistica: quella di Enzo Gragnaniello. Solo nel Nuovo Millennio, ha sfoderato lavori come L’erba cattiva (2007) o Radice (2013), che se li avesse fatti qualche cantautore ‘merigano sai che fiumi d’inchiostro (Tom Waits, per dirne uno) – niente, avrebbero meritato molto di più in termini di popolarità sebbene al diletto esoterico dei veri appassionati possa andare bene così, paradossalmente. Come recita una sua recente canzone, Comm’è amaro, “faccio disegni che neanche Picasso riesce a capire”. Mai verso fu più autentico e capace di cogliere nel segno. Quanto i dischi citati poc’anzi erano molto oscuri, che scavavano nella Napoli di notte – quella che non ti aspetti, o che forse la tv non racconta; quella narrata benissimo dal cinema di Mario Martone (L’amore molesto) o del primissimo Paolo Sorrentino (L’uomo in più) – il percorso (ri)cominciato con Misteriosamente (2015) che giunge a questo Vento e terra è un Neapolis Mantra più di sole e di Mediterraneo, che non vuol dire niente più dramma, sofferenza e blues – è solo un discorso di gradazione di ombra e di luce.
Suddiviso equamente in canzoni cantate in napoletano e in italiano, Lo chiamavano vient’ ‘e terra è lo sguardo disingannato di chi ama il proprio enclave (un po’ come capitava con Enzo Jannacci e la sua Milano), ne prende alcuni cliché facendoli propri in senso artistico, dove lo steccato folklorico è subito saltato con gusto poliedrico verso il mondo. I porti sono fatti per partire e per accogliere – e quello di Napoli di gente che va e che viene ne vede centinaia quotidianamente, come l’occhio senza illusioni di Gragnaniello conosce molto bene.
Prodotto e arrangiato da lui stesso, l’album sfodera qualità di compositore di prim’ordine come già testimonia il brano che lo intitola: racconto autobiografico di come il giovanissimo artista alzò i tacchi dai vicoli napoletani alla volta di Milano, città identificata come il luogo più lontano dove poter “scappare”. Già un pezzo così fa capire che questo è un disco “importante”, speciale. Così rimarchevole che non mancano brani di denuncia (‘A delinquenza, che “è na pasta cresciuta cu ‘o lievito furbo e nun tene pietà”), d’amore nell’ottica della classica canzone napoletana (Si tu me cunusciss’ – “ma stiss’ sempe ‘ccà vicino ‘o core e io t’abbracciasse sempe a tutt’ ll’ore”) o di rapita poesia su note vagamente fado (Ancora in me – “ma se tu verrai, ma se tu lo vuoi lavorerò solo per te, costruirò una casa come i sogni di Gaudì”). Lirismo, musica ricercata, vento, terra: non manca nulla nell’universo di Enzo Gragnaniello, uno di quegli artisti che se non ci fosse già bisognerebbe inventarlo.
Foto: © Guido Harari