Vi fu un tempo in cui ogni cosa che faceva o toccava Elvis Costello era semplicemente religione – il tempo dei primi dischi con ovvio trionfo dalle parti di Get Happy!! (1980), il tempo di Imperial Bedroom (1982) e di King Of America (1986), il tempo dei gemelli diversi Spike (1989) e Mighty Like A Rose (1991), quello di Brutal Youth (1994) e quello di When I Was Cruel (2002). Poi qualcosa, fra noi e lui, si è raffreddato. E questo nuovo Hey Clockface fa poco perché la scintilla riaccenda il vecchio amore.
Non che negli ultimi anni qualcosa di buono egli non l’abbia tirato fuori, vedi il più che discreto The River In Reverse (2006) con Allen Toussaint oppure i 2 lavori con il ritrovato fratello codardo T Bone Burnett dietro la consolle – ma la sensazione generale è che Declan Patrick Aloysius MacManus abbia calcato la mano più nel fare collezione di figurine piuttosto che fare dischi con un’anima. Tipo: ecco l’opera classica, ecco il disco pseudo hip hop – il più che seccante Wise Up Ghost (2013) con i Roots, nadir di un’intera carriera – quello jazz, il disco pop(ettaro), l’album orchestrale, senza farsi mancare quello bolso britpop al grido the Godfather of… né quello bluegrass. Spaesati, confusi e forse un po’ irritati lo abbiamo seguito comunque – ovunque. Molti vedono questa funambolica attitudine al cambio d’abito un pregio: con altri ha funzionato benissimo (fuori i nomi: David Bowie, Ray Davies, volendo anche Paul McCartney…) – con Elvis invece, alla lunga, sembra che il fiato corto abbia preso il sopravvento. Anche perché, perdonate la franchezza, semplicemente non scrive più le grandi canzoni di una volta, quando il mare dell’artista anglo-irlandese era pescosissimo. Adesso il panorama è quello del manierismo spinto – e con pochi pesci che restano attaccati all’amo.
Elvis Costello con Debbie Harry (Blondie), luglio 2019
Hey Clockface è, a larghi tratti, un breviario di molto fra quello che, sinceramente-spassionatamente, non ci è piaciuto di Costello in questi ultimi decenni – dove la sbobba è parsa essere esercizio di stile anziché urgenza artistica, che era quella cosa la quale per 20 anni abbondanti ha travolto, esaltato e fatto godere del suo far musica. Qualcosa d’interessante si trova anche, vedi What Is It That I Need That I Don’t Already Have?, un po’ revival del mai dimenticato The Juliet Letters (1993); Byline, sinuoso incontro Elton John/Tom Waits per piano e orchestrina in sottofondo; Newspaper Pane, interessante psico–musical a tinte noir; e soprattutto They’re Not Laughing At Me Now, che se vi fa pensare al MacManus angolare del glorioso Blood & Chocolate (1986) ma anche del già citato e sottovalutato When I Was Cruel sbagliate di nulla.
Costello e Steve Nieve
Detto ciò, sennonché, nei 50 minuti netti dell’album, s’incontrano momenti che non soddisfano, che vanno dai pastrocchi No Flag, We Are All Cowards Now e Hetty O’Hara Confidential – all’aurea soporifera delle varie I Do (Zula’s Song), I Can’t Say Her Name, The Last Confession Of Vivian Whip e The Whirlwind. Poi, sì-vabene-okay, il lavoro è stato inciso fra Parigi–Helsinki–New York, tra gli altri vi trovate a metter strumenti Bill Frisell, Nels Cline (Wilco) e il Quintette Saint Germain guidato dal fidatissimo Steve Nieve – ma non basta. Il Costello Show che vogliamo è ben altro!