Continuiamo a ricercare quella musica e quella poesia che per motivi indecifrabili vengono tenute ai margini delle major discografiche. Forse perché troppo ricche di contenuti? Sia quel che sia, stavolta vogliamo raccontarvi del torinese Tiberio Ferracane. Classe 1964, cantautore, interprete, compositore, insegnante di musica e canto, presiede l’Associazione Un Mondo in 3D che promuove il benessere scolastico, le arti e la qualità della vita di bambini e ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento. Fra i suoi dischi, Tiberio Ferracane (2006) e Cosa rimarrà di noi (2009). Voce passionale e graffiante, racconta nei suoi brani scorci di una realtà umana più che vera e profonda. Prendiamo ad esempio Mila.

Una madre, che il destino ha voluto crescesse un figlio da sola, si confronta con l’età e guardandosi indietro si scontra con la durezza di una vita che a volte regala momenti di spensieratezza, allegria e leggerezza, ma troppo spesso frappone ostacoli all’apparenza insormontabili.

(“Mila ha 39 anni/un lavoro, un figlio da accudire/bollette da pagare tutti i mesi/mesi tutti uguali)

Dalle prime battute della canzone si respira l’aria di una vita dura, scandita ogni mese da scadenze e doveri che sembrano soffocare il ricordo dei bei tempi trascorsi fra sogni, amori, studi. Sembrano lontanissimi quegli anni dove il futuro era un gioco, la fantasia superava la realtà, la spensieratezza rendeva tutto colorato e pieno di profumi. Mila, oggi, deve lottare per non arrendersi a una quotidianità dura e beffarda. Ma nonostante tutto ciò, “sei ancora bella”…

(“Mila sciogliti i capelli/guardati allo specchio/accarezza i fianchi/sei ancora bella Mila/le corse giù in cantina/gatti alla finestra cantano per te…”)

Chi, guardandosi allo specchio, almeno una volta nella vita non si è sentito costretto a farsi un esame di coscienza? È ciò che è accaduto al protagonista di L’uomo senza memoria. Assistiamo a una specie di “sdoppiamento della personalità”: un’altalena di stati d’animo e di emozioni che mette in luce le molteplici sfaccettature di un individuo in perenne lotta fra ciò che è bene e ciò che è male. Un duello che assilla e perseguita all’infinito. Quell’infinito che sconvolge e sposta ogni certezza:

(“A volte mi sveglio/in piena notte lo vedo/a casa mia gesticola come un pazzo/parla non so con chi/non so chi sia…”)

Non siamo in presenza di una patologia da “strizzacervelli “, ma di un uomo che si sveglia dopo una serata, una delle tante, passata al bar. E come se fosse uscito dal proprio corpo vede se stesso gesticolare, parlare da solo, bere, fumare. Lui che si mette a parlare con tutti, anche con gli sconosciuti della sua vita. E poi nel cuore della notte, dopo aver esagerato, come sempre se ne torna a casa. Inutile domandargli come sta, non ricorda nulla. O finge di non ricordare…

(“Come sempre la mattina lei mi chiede come va […] Sono un uomo senza memoria/insomma un uomo senza storia/un qualunque uomo di questa città/di figli avuti e abbandonati/di amori persi mai più trovati/ di un caffè veloce dentro un bar”)

Di sicuro il protagonista di Una rosa per te avrebbe pagato oro pur di scordarsi di ciò che gli era capitato:

(“Ho comprato una rosa per te/una di quelle col gambo lungo/l’ho comprata per noia e perché si intonava al tuo rosso vestito”)

Lui acquista una rosa rossa da regalare di sera alla sua amata. È un “uomo d’altri tempi” il nostro innamorato che paziente aspetta l’attimo giusto per dichiararsi. Magari durante un tango appassionato. Tutto fa ben sperare… Un fiore, l’abito gessato: “Lei non può dirmi di no”…

(“…e invece è andata via/ho chiesto è andata via/parlava con un tizio/me l’ha portata via…”)

Che delusione! Ma anzichè essere furioso, il galantuomo si preoccupa per lei chiedendosi: “chissà come starà?”. Le sere successive lui passa e ripassa da quel locale, nella speranza di rivederla, sempre con il gessato e la rosa rossa. Ed eccola, finalmente: bella da togliere il fiato e il cuore che sembra fermarsi per un attimo. Ma subito appare l’altro, quello di quella maledetta sera. Insieme varcano la soglia di un portone e svaniscono per sempre. Che disfatta l’amore non corrisposto…

Concludendo con Le scarpe il cappello e la regina lasciamoci andare, lasciamoci guidare dalla spensieratezza e dalla gioiosa irrazionalità. Facciamolo in barba agli stereotipi e alla morale che ci annichiliscono la libertà non consentendoci di fare quello che ci pare e, fosse anche solo per un attimo, sentiamoci tutti “molto fortunati”:

(“Sono un uomo molto fortunato/ho trovato un paio di scarpe color cielo/sono un uomo molto fortunato e adesso in poi anche un po’ invidiato […] Posso camminare a testa sotto calpestare il cielo e non me ne vergogno”)

Sì, sono felice, canta Tiberio. Perché sorridere alla vita ci rende più forti, e magari guardandola da un’altra prospettiva riusciamo a gioire anche delle piccole cose provando l’ebbrezza di vivere giorno per giorno, lontani e sordi a chi arriva a dirci, puntuale come un orologio, “tu devi fare”, “tu devi andare”…

(“E poi arrivi tu a rompere le uova/a ricordarmi che son padre di un figlio maggiorenne/sai che c’è, me ne infischio e canto la la la la la…”)

Libero come sono, io me ne infischio e vado avanti con il mio “cappello dalla falda larga”, godendomi questo momento di gioia. Oggi voglio osare, lasciarmi andare, vivere come in una fiaba con tanto di castello, Re e Regina…

Sognare non è sinonimo di infantilismo, ma di grande maturità e coraggio! (Crise)