60 anni quest’anno, dei quali una quarantina passati come musicista professionista fra dischi, centinaia di concerti in Italia e fuori, fama di guitariste extraordinaire riconosciuto da tutti, eclettismo musicale che tradisce un solido background culturale di base. Paolo Bonfanti ha appena pubblicato un nuovo, eccellente album: Elastic Blues – che senza batter ciglio è fra le cose migliori ascoltate in Italia negli ultimi anni. Caratura internazionale, detto in breve. Di ciò e di molto altro parliamo in questa lunga intervista che ci ha concesso. Accomodatevi.
70 minuti di musica – in 1 Cd non ce ne stanno dentro di più. Come mai questa incontenibile voglia di “dare tutto”? I 60 anni che hai appena compiuto ti hanno generato nuova euforìa? O semplicemente il lockdown è stata la scintilla che ha accesso la miccia?
«Mi succede quasi sempre così – non sono assolutamente un autore/compositore prolifico, praticamente tutto quello che ho scritto è stato registrato, non esistono outtakes, ma quando comincia a venirmi in testa qualcosa allora potrei non fermarmi più. Forse la clausura ha accelerato l’urgenza, ma è una condizione che non credo abbia influito più di tanto».
Questo è un disco che rompe molti degli stereotipi che si hanno su di te: il maestro della chitarra e il bluesman, sebbene chi ti segue con attenzione sa bene delle tue vedute musicali a 360°. La butto lì: ti sei forse voluto togliere qualche sassolino dalla fatidica scarpa?
«Si, questo è decisamente un lavoro anomalo. A parte il fatto che mi sono detto che per i 60 anni avrei dovuto fare qualche piccola, o magari grande, pazzia – ma mi sono lasciato decisamente prendere la mano. Più che sassolini dalla scarpa, ho voluto, se ve ne fosse stato ancora bisogno, far vedere che sono cresciuto e maturato musicalmente senza pregiudizi di ascolto, che mi piacciono molto tanti generi musicali diversi, che bisogna sempre essere curiosi e non fossilizzarsi mai. In fondo ho sempre pensato che è il pubblico che ti deve seguire – e non tu che devi seguire i gusti del pubblico, anche perché sarebbe un’impresa impossibile».
Molto interessante il lato cantautorale di Elastic Blues: vedi The Noise Of Nothing, Fin de zugno e Where Do We Go. Avremo mai un disco intero di Bonfanti cantautore vero e proprio? In fondo da Luigi Tenco a Fabrizio De André, da Bruno Lauzi a Ivano Fossati, da Gino Paoli a Umberto Bindi – la tua Zena è stata sempre una culla di prim’ordine per il cantautorato italiano…
«Pensa che l’idea originaria a proposito di questo lavoro era quella di registrare brani in solo – o al massimo in duo. Poi, come dicevo, sono uscite fuori molte altre esigenze. Se non fosse stato il disco dei 60 anni, forse sarebbe stato un lavoro come è descritto nella tua domanda. E comunque non è detto che, prima o poi, non esca fuori una cosa del genere».
Strumentali, pezzi in inglese e anche in genovese – niente in italiano. Come mai? Bonfanti, che in passato qualcosa in italiano l’ha pure cantato, irrimediabilmente esterofilo?
«Sì, quella del brano in italiano è una mancanza. Sarà che nello scrivere in italiano uso sempre moltissima cautela. È una lingua che, abbinata alla musica di radice afro-americana, spesso non perdona e si rischia di scrivere cose banali – o proprio brutte. Ma anche in questo caso, vale senz’altro la pena di ripetere un lavoro come Io non sono io o Canzoni di schiena. Devo soltanto avere l’ispirazione giusta».
Molto interessante quello che dici. Da persona che ha ascoltato tanta musica e da musicista con chiaramente tanto background tecnico, chi ritieni che da noi abbia dato risultati apprezzabili nell’unire l’italiano abbinato alla musica di radice afro-americana? E perché? Intendo, in molti hanno usato l’italiano con il rock e il rock-blues: Eugenio Finardi, Vasco Rossi, Gang, Claudio Rocchi, Zucchero Fornaciari, Litfiba, Nada, Luciano Ligabue, Massimo Bubola, Ivano Fossati, Gianna Nannini, Francesco De Gregori…
«Claudio Rocchi non mi aspettavo che lo includessi, ma ci sta dentro benissimo. Ed è anche giustissimo citare questo straordinario artista spesso non troppo ricordato. Nada è un’altra grande interprete che ha attraversato epoche – ed epiche! – della musica italiana. Non posso non citare i miei fratelli Gang ed Eugenio Finardi, di madre americana, sa sicuramente di che si parla in ambito rock, così come Francesco De Gregori e Massimo Bubola hanno scritto cose che si possono accostare tranquillamente al miglior cantautorato USA. Ma vorrei ricordare anche qualcuno tipo il primo Alan Sorrenti, buckleyano fino al midollo – magari non rock-blues ma comunque vicine a un certo spirito che condivido».
Poi nell’album vi sono numeri veramente far out (Don’t Complain e Alt!) e jazz, vedi Unnecessary Activities e la stessa Elastic Blues. Curiosità: sono brani che avevi nel cassetto da tempo, o sono frutto d’ispirazione ex novo?
«No, sono brani composti appositamente per questo disco. In questo caso si ritorna un po’ alle cose dette in precedenza a proposito dell’eclettismo che in qualche modo mi ha sempre contraddistinto, anche nell’ascolto».
Bonfa, sei recidivo: è il tuo 2° disco di fila dove immortali un pezzo del giro Grateful Dead. Complimenti a parte per l’eccellente cover di Haze di Bobby & The Midnites, il gruppo di Bob Weir dei primi anni 80; e per l’originalissima Franklin’s Tower immortalata in Back Home Alive (2014). Come mai questa insistenza con il Morto?
«Alla base di questa scelta ci sono 2 ragioni. La prima è che con la mia band, nella formazione anni 90, già suonavamo questo brano dal vivo – e, quindi, ci è sembrato logico fissarlo per i posteri. La seconda è che i Dead sono una band fondamentale anche nel senso della loro straordinaria capacità di sintesi di numerose influenze musicali – che è un po’ il leitmotiv di questo disco, se vogliamo».
Nel disco l’attuale Bonfanti Band fa da scheletro – ma troviamo, qui e là, tuoi vecchi collaboratori delle varie incarnazioni della PBB, Fabio Treves e addirittura i Big Fat Mama, il tuo primo gruppo con cui ti sei fatto tutti gli anni 80. Per noi ascoltatori il patchwork è molto suggestivo – ma che cosa ha provato Bonfanti a riunire tutti questi pezzi del puzzle di un’intera carriera?
«È stata una cosa che sentivo quasi come un dovere, nell’approcciarmi a registrare un album che sia in qualche maniera anche una sorta di summa della mia carriera musicale finora, riunire un po’ delle formazioni che mi hanno accompagnato in questi anni. Particolarmente emozionante è stato suonare di nuovo con la formazione storica dei Big Fat Mama in We’re Still Around. Non suonavamo insieme da 25 anni e ci siamo, comunque, ritrovati nelle mani quel suono tra rock-blues e southern rock che ci aveva sempre contraddistinto. Fabio Treves ha collaborato a moltissimi dei miei lavori e mi ha anche aiutato molto, specialmente nei primi anni per cui era quasi ovvio averlo ancora una volta ospite, così come è successo per la mia ex bassista Rosalba Grillo».
Altra curiosità: come mai, con tutti gli amici che hai coinvolto, non è presente Martino Coppo, tuo pard di molte avventure musicali?
«Sì, Martino questa volta non c’è ma è stata una scelta semplicemente dovuta al fatto che un anno fa è uscito il nostro 2° lavoro, Pracina Stomp. Per cui ho preferito non sovrapporre le 2 cose».
La confezione molto chic di Elastic Blues consta anche di un libretto di quasi 80 pagine, dove racconti aneddoti di vario tipo. Con tutto quello che potresti raccontare in oramai 4 decenni da musicista professionista, non ti è mai passato per la mente di scrivere una vera e propria autobiografia?
«È una cosa a cui ho pensato, devo ammettere. La mia proverbiale pigrizia mi ha fatto desistere dal cominciare a scrivere, ma magari prima o poi mi ci metto di buzzo buono e riesco a farcela».
Intervistare Bonfanti in questi tough moments di pandemìa richiede d’obbligo un paio di considerazioni sulla stretta attualità. Tu sei un road warrior, uno che fa un sacco di date ogni anno. Senza tirar in ballo l’ovvia sofferenza economica, d’obbligo domandarti come stai vivendo questo stop forzato, al netto di qualche data estiva che sei riuscito a fare?
«Sì… anche se, da partita IVA di vecchia data, devo ammettere che ho ricevuto vari “ristori”, come li chiamano oggi, che mi hanno permesso di essere sufficientemente “coperto”. Mi manca molto, però, la dimensione dal vivo, anche perché con un disco come questo le cose che si potrebbero fare sarebbero assai interessanti. Speriamo di ricominciare presto. Il 14 e 15 novembre scorsi avremmo dovuto fare la presentazione ufficiale al Teatro Municipale di Casale Monferrato, ma ovviamente è saltato tutto. Abbiamo provato a bloccare la data del 21 marzo 2021. Vedremo se riusciremo a farla».
© Francesco Gisolfi
Da parte in causa quale musicista senza un palco dove esprimersi, dove credi che il Governo abbia mostrato dei limiti e che cosa proporresti per superare l’impasse?
«A mio modestissimo parere, visto anche come si sono sviluppate le cose, siamo uno dei paesi, almeno in Europa, che ha gestito peggio la situazione anche se è stato fatto di tutto per comunicare l’esatto contrario. Impreparazione, piani sanitari non aggiornati da decenni, scaricabarile vergognosi tra le varie entità di Governo Nazionale e Regionale, comunicazione terroristica con determinazione di categorie di potenziali “untori” per coprire evidenti responsabilità a livello centrale, tutto questo innestato su tagli quasi quarantennali a tutto il settore pubblico: sanità, scuola, trasporti. Il continuo adagiarsi su situazioni “emergenziali”, senza mai cercare di risolvere i veri problemi alla radice. Il fatto che siamo arrivati a questi punti, alla fine, non mi stupisce più di tanto. E comunque hanno ragione quelli che dicono che la responsabilità è nostra: chi ci governa è stato votato, non è cresciuto spontaneamente da una pianta. La cosa triste, almeno per me, è che sembra non ci siano alternative ad accontentarsi del “meno peggio” – una cosa molto italiana da troppo tempo, ormai. È comunque una questione di visione d’insieme: se si pensa che la cultura sia un bene necessario, allora si agisce in quel senso senza troppi problemi – anche perché, sempre se si vuole, si possono trovare molte soluzioni accettabili anche se ovviamente non definitive. Se invece si pensa che la cultura non sia un bene necessario, allora basta vedere quel che è successo qui da noi».
In un futuro prossimo che speriamo si avveri in fretta, hai forse pensato di portare Elastic Blues in concerto avendo un po’ tutti i tanti musicisti coinvolti – magari per qualche data selezionata oppure per un evento celebrativo studiato ad hoc?
«Come dicevo prima, c’è sempre l’idea di fare un po’ di presentazioni in spazi adeguati, in cui sia possa portare quanti più musicisti possibile tra quelli che hanno collaborato. Speriamo di poterlo fare presto».