Dal dì che nel gennaio 2016 David Bowie evaporò nella Stellanera, apriti cielo: sono diventati tutti fan del Duca, gli esperti-espertoni-espertissimi non si contano; per non parlare di come il cavò discografico dello stesso artista inglese si è aperto tipo diga in piena fra boxset, album e live inediti, edizioni limitate – uno spremifan come nemmeno uno spremiagrumi. L’editoria, sia italiana sia mondiale, altrettanto non si è risparmiata – tutti titolatissimi a scrivere biografie e saggi di varia natura. Libri come se piovesse – alcuni di assoluto valore, beninteso, tipo l’imprescindibile Nicholas Pegg di The Complete David Bowie (ultima edizione aggiornata ottobre 2016 – 800 pagine di godimento dove tutto il corpus bowieano è scrutinato come meglio non si potrebbe); la biografia David Bowie/A Life (2017) di Dylan Jones; e l’interessantissima incursione nel Bowie giovane At The Birth Of Bowie/Life With The Man Who Became A Legend (2019) di Phil Lancaster. Eccoci, dunque, a David Bowie/Changes (Le storie dietro le canzoni, Vol. 1, 1964-1976), 1° volume di 2 (o forse di 3? Nell’introduzione non è specificato…) dove il giornalista Paolo Madeddu si cimenta nella titanica impresa di catalogare, descrivere e analizzare il bodyofwork del musicista di Brixton – che come spiega eloquentemente il titolo del tomo qui si ferma a Station To Station (1976), incluso.

David Bowie e Mick Ronson eseguono il brano Starman a Top of the Pops (1972)

Il 1° pregio del libro che balza all’occhio è la leggibilità, ben impostata: album per album, con subito in evidenza tutti i dati necessari a una lettura rapida – che vanno da dove le canzoni sono state registrate, dove si trova questo o quel brano in prima istanza se non appartenente al disco in esame (b side, antologie, etc), produttori, fino ai musicisti coinvolti in session. Tutto ben fatto. Anche il lavoro di taglia & cuci che immaginiamo abbia impegnato Madeddu, vista la mole di dati che comporta il “soggetto Bowie”, è certamente ammirevole. Il mare magnum dove andare a pescare prevede le opere poc’anzi citate, cui aggiungere le essenziali Strange Fascination (1999) di David Buckley, The Autobiography/Bowie, Bolan And The Brooklyn Boy (2007) di Tony Visconti, Starman (2010) di Paul Trynka; nonché reference website come bowiewonderworld.com, bowiebible.com, The Pushing Ahead Of The Dame (bowiesongs.wordpress.com), fin all’italico velvetgoldmine.it. Molto buona anche l’idea d’inserire, dove possibile, stralci di vecchie recensioni apparse nello storico settimanale italiano Ciao 2001, a firma Enzo Caffarelli, Maria Laura Giulietti, Manuel Insolera e altri. A fronte di tale materiale, fa sorridere che nel tomo si sia trovato il tempo di dar spazio alla pur simpatica Amanda Lear, che negli anni ha parlato di Bowie elargendo inesattezze, esagerazioni e panzane che francamente non rendono affidabile la cantante, attrice, presentatrice e vamp franco-britannica.

Madeddu scrive bene e in scioltezza, anche se qualche volta si ripete nei concetti – per esempio, nella connection Bowie-Springsteen o nell’esasperazione del dualismo Bowie-Jagger, che per noi è giusto reciproca ammirazione e al massimo onesta competizione fra amici. Vero anche che il libro potrebbe essere letto a schede, anziché d’un fiato come abbiamo fatto noi. Già, a proposito: alla lettura qualche omissione qui e là ci è parsa macroscopica. Tipo non aver minimamente nominato la Incredible String Band nell’ambito delle certificate influenze su Bowie, sia nel campo teatrale sia in quello (freak) folk che ha permeato l’opera del futuro Ziggy/Thin White Duke almeno fino a Hunky Dory (1971). Tipo che a suggerire i dischi di cover annata 1973 sia di Bowie sia di Bryan Ferry siano stati quelli del loro assiomatico idolo Scott Walker, vedi la seconda facciata di ’Til The Band Comes In (1970) e The Moviegoer (1972) – e non stiamo a dire dei Walker Brothers, che furono grandi specialisti in cover alquanto originali. Tipo aver pressoché tralasciato il personaggio Halloween Jack salvo una veloce menzione (“Diversi commentatori eleggono a protagonista della canzone Halloween Jack, che vive sulla cima della sede della banca Manhattan Chase e usa una fune come Tarzan per scendere nella giungla metropolitana” – pag .318), quando l’alter ego con piratesco occhio bendato di Bowie fu al centro dell’album Diamond Dogs (1974) e relativo tour nonché citato a chiare lettere nell’omonimo brano (“The Halloween Jack is a real cool cat/And he lives on top of Manhattan Chase/The elevator’s broke, so he slides down a rope/Onto the street below, oh Tarzie, go man go” – qualche commentatore? David Bowie, miglior commentatore di se stesso…). Oppure tipo non aver riportato come il vero ispiratore del cosiddetto plastic soul di Young Americans (1975) fu, toh, Marc Bolan che percorse ben prima di Bowie gli stessi sentieri soul, forte anche della relazione artisco-sentimentale con Gloria Jones (ex Motown), come dimostrano Bolan’s Zip Gun (1975) dei T. Rex e il postumo doppio The Soul Sessions (2015) con registrazioni prettamente del 1974 (rifarsi anche alle tante titolate biografie, dove si parla di un Bowie post glam sulle tracce di Bolan in suolo americano, scovato poi nelle cantine soul…).

Nei panni di Halloween Jack, epoca Diamond Dogs (1974)

Nell’introduzione lo stesso Madeddu tiene a far sapere come “Per concludere questa nota introduttiva, l’autore si sente moralmente obbligato a premettere che non è un fan di David Bowie. Questo perché, anche se può sembrare una posizione altezzosa (pardon), non si ritiene un fan di nessun artista: è una condizione che non fa bene e non permette di essere obiettivi. Ma, proprio per questo motivo, il succitato autore (pur esprimendosi in terza persona in modo desueto e preoccupante) ritiene obiettivamente David Bowie indispensabile nella storia della musica rock, quasi quanto i Beatles”. Non reputando altezzosa la sua posizione, letta l’intera opera riteniamo che, tuttavia, al suo fianco un informato fan di Bowie lo avrebbe aiutato a evitare tutta un serie di errori, sviste e quant’altro, oltre le mancanze già segnalate poco sopra.

Sicuri di essere d’aiuto all’autore per un’eventuale seconda edizione, ecco quanto ci è (sob)balzato all’occhio. Pag. 56: si parla di 2 apparizioni di Bowie ai Tibet House Benefit Concert organizzati annualmente da Philip Glass – a dir il vero, le apparizioni del Duca al THBC furono 3: 2001, 2002 e 2003. Pagg. 98 e 198: è citata tale Ryko Records – che in verità si chiama Rykodisc. Pag. 104: parlando di Janine, brano presente in Space Oddity (1969), si afferma che il pezzo ricordi “Certe tracce interlocutorie di Who’s Next dei Who, che uscirà due anni dopo”. A parte che più che ricordare al massimo anticipa, poiché Who’s Next arriva dopo, sarebbe bello capire quali siano queste “interlocutorie tracce” dell’album di Pete Townshend e soci. Pag. 121: “Già nelle prime settimane del 1970, come testimoniato da un’intervista a Music Echo, David aveva in mente “un disco più solido”. Il suo piano era quello di incidere una facciata elettrica e una che lo avrebbe visto solo alla chitarra acustica, come Bringing It All Back Home di Bob Dylan e come si accingevano a fare Crosby, Stills, Nash & Young per il loro 4 Way Street”. Passi per il disco di Bob Dylan, ma il riferimento a CSN&Y non regge, poiché quell’album era un live che semplicemente riportava un condensato degli show dei 4, sempre divisi fra set acustici ed elettrici. Fra l’altro, 4 Way Street era un disco doppio – uno acustico e l’altro elettrico, quindi non si può parlare propriamente di facciate. Continuiamo? Certo.

Bowie con il produttore discografico e musicista Tony Visconti (1970)

Pag. 143:  “… i Meat Puppets di Pat Smears”Pat Smear, senza “s“, please, non ha nulla a che fare con i Meat Puppets (salvo eventuale amicizia e aver condiviso il palco nell’unplugged dei Nirvana, dove i Puppets furono ospiti) ma è stato il co-fondatore dei Germs, touring musician dei Nirvana e attualmente parte dei Foo Fighters. Pag. 160: “Il ritiro dalle esibizioni live, senza tanto clamore, avverrà proprio con Changes, ultima canzone eseguita dal vivo in qualità di ospite finale del Black Ball 2006, evento benefico presentato da Alicia Keys alla Hammerstein Ballroom di New York. Dopo aver eseguito Wild Is The Wind e Fantastic Voyage – due brani sostanzialmente ignoti al grande pubblico –,  fu raggiunto da Alicia Keys per il brano finale, con cui si concluse lo spettacolo. Era il 9 novembre 2006”. Errato. L’ultima esibizione in pubblico di Bowie fu il 19 maggio 2007 all’High Line Festival presso il Madison Square Garden di New York, dove a sorpresa presentò l’amico attore Ricky Gervais e intonò Little Fat Man, brano che tempo prima i 2 avevano già eseguito insieme nella serie tivù Extras (2005-2007). Pag. 172: “Forse una specie di amareggiato scherzo fu invece Is There Life On Mars? che Mick Ronson propose a lungo nei suoi concerti e della quale è stata pubblicata postuma una versione registrata in studio nel 1975: è una canzone di T-Bone Burnett e Roscoe West che casualmente si intitolava come il pezzo di quel suo amico che gli aveva appena dato il benservito”. A parte che Madeddu forse intendeva dire “amaro scherzo” (inoltre, a parer nostro forse era giusto che Ronno aveva il giusto sense of humor nell’interpretare un brano che evidentemente rimandava al classico di Hunky Dory…) e a parte che T Bone Burnett si scrive senza trattino, qui siamo certi che Is There Life On Mars? sia un brano scritto interamente dal misconosciuto Bob Barnes aka Roscoe West – peraltro, nella ristampa Snapper Classics del 2000 di Play Don’t Worry (1975) il brano è pure accreditato al solo Mick Ronson. Finito? No.

Pag. 178: “Fill Your Heart è la prima cover che Bowie abbia mai messo su un album, un elenco breve ma destinato ad allungarsi”. I concetti di brevità e di allungamento ci sfuggono, anche perché Bowie nei suoi dischi ha inciso una valanga di cover, tanto che ne contiamo facile una cinquantina. Pagg. 198-199: a proposito del brano Lightning Frightening “La comparsa di questa canzone nel 1990 creò una certa confusione tra i collezionisti più attenti a causa della fretta della Ryko Records di aggiungere qualcosa di intrigante per i fan nella ristampa di The Man Who Sold The World, album che all’uscita aveva venduto molto poco (i Nirvana gli avrebbero dato nuovo lustro poco tempo dopo)”. Non capiamo: lustro a tutto l’album o giusto alla canzone? “Poco tempo dopo” sarebbero quasi 25 anni – ma il  tempo, si sa, è elastico. Pag. 209: Michael Pergolani è erroneamente scritto come Michel Pergolani. Pag. 228: a proposito di Ron Davies, autore di It Ain’t Easy, si afferma che egli sia “Fratello meno noto di Gail Davies, nome consolidato del country in ottimi rapporti con Joni Mitchell e Neil Young, il cantautore americano Ron Davies scrisse un solo pezzo di successo, It Ain’t Easy”. Evidentemente non è pervenuto Long Hard Climb, buon successo per Helen Reddy, vedi l’album della cantante australiana trapiantata in USA appunto intitolato Long Hard Climb (1973), top 10 americano. Aggiungiamo pure che per chi abbia voglia di ascoltare bella musica, Silent Song Through The Land (1970) del buon Ron è davvero un discone (è lì che si trova l’originale di It Ain’t Easy). Pag. 264: “Per Panic In Detroit Bowie addirittura si appropria di un ritmo che gli Stones stessi avevano copiato più volte, il “Bo Diddley beat” da loro adottato a più riprese negli anni ’60 in Not Fade Away, Please Go Home e Hey Crawdaddy”. I veri esegeti di Bo Diddley in UK epoca beat furono i Pretty Things, idoli assoluti del Bowie adolescente e… se-tanto-mi-dà-tanto. Finito? Ci piacerebbe ma no – David Bowie/Changes (Le storie dietro le canzoni, Vol. 1, 1964-1976) lo abbiamo letto fin l’ultima riga.

Il musicista di Brixton insieme ai Pretty Things (1965)

Pag. 270: parlando di Mick Jagger e di David Bowie “Quei due erano ossessionati l’uno dall’altro. Erano tanto reciprocamente affascinati quanto competitivi. Anche parecchi anni dopo, come ha testimoniato Bob Geldof durante un fallito tentativo di duetto su One Love di Bob Marley per Live Aid, “con ogni verso della canzone cercavano di surclassarsi. Era inquietante””. Chiarezza di lettura avrebbe voluto che si specificasse che, magari, si trattasse del singolo che i 2 volevano incidere in occasione del grande concerto benefico del 1985 (la scelta poi cadde su Dancing In The Streets di Martha And The Vandellas), anche perché Jagger si esibì a Filadelfia mentre Bowie a Londra. Pag. 362: “Per la copertina di Young Americans Bowie si rivolse al venerando illustratore Norman Rockwell, portato a notorietà dal titolo volgare – ma evidentemente cool – di un album di Lana Del Rey, Norman Fucking Rockwell”. Più o meno come dire che Mick Jagger sia famoso perché qualcuno, tali Maroon 5 con Christina Aguilera, ha inciso un brano intitolato Moves Like Jagger. Per inciso: Rockwell fu pittore e illustratore fra i più celebri del 900 americano. Pag. 389: “Dieta di latte e peperoncino” – a noi, e crediamo anche al resto del mondo, risulta che la famosa dieta del Coke Bowie fosse a base di latte e peperoni, o almeno così è passata alla leggenda. Lost in translation – sarà mica che l’abuso di traduttori online crea cortocircuiti? Pag. 398: si insiste con la “Dieta di latte e peperoncino”. Pag. 410, a proposito di religione: “Nel 1993 David diceva all’intervistatore di Arena: “Molte canzoni che ho scritto sono preghiere, forse anche solo di trovare e conservare un senso di me stesso. Personalmente ho un’incrollabile convinzione nell’esistenza di Dio. Per me non è discutibile”. Viceversa, intervistato nel 2005 da Anthony DeCurtis per il libro In Other Words, diceva: “Non sono del tutto ateo, e questo mi turba. C’è una piccola parte che non si vuole staccare… Sono quasi un ateo. Ho bisogno di un paio di mesi… Ci sono quasi”. Nel 1992 aveva sposato Iman con matrimonio religioso a Firenze, sottolineando che dopo il rito civile in Svizzera si erano sposati anche davanti a Dio. In Blackstar Bowie si è congedato dicendo “Sono in paradiso”. Nel testamento ha chiesto di essere cremato con rito buddhista. Alla fine, come avveniva per la musica, non riusciva a coltivare una sola religione”. In tutto questo elenco di religiosità bowieana e atti correlati, vi è una dimenticanza ovvia e bella grossa: David Bowie che allo Stadio di Wembley nel 1992, durante il Freddie Mercury Tribute, si mette in ginocchio e recita il Padre Nostro. Amen. ★.

Paolo Madeddu, David Bowie/Changes (Le storie dietro le canzoni, Vol. 1, 1964-1976), Giunti/Bizarre, 447 pagine, € 25