Chi negli anni 90 c’era, fisicamente ma innanzitutto con le antenne belle rizze, tra un bisticcio e l’altro Oasis/Blur chez NME sa che i Cornershop, guidati dell’anglo-indiano di Wolverhampton Tjinder Singh, erano fra le cose più deliziose apparse nella scena britpop. Non solo per un hit frantuma classifiche e inno all’hashish come Brimful Of Asha (diventato popolarissimo anche grazie a un vorticoso remix di Fatboy Slim) – ma, soprattutto, per il tono babel, esotico, stoned e proto global che ne pervadeva tutti gli album. Ridi e scherza, compiono quasi 30 anni di carriera, hanno perso pezzi e ne hanno acquisiti altri – Tjinder, con Ben Ayres, unico altro componente originale, è comunque rimasto a tener in piedi la baracca. Che a giudicare da questo nuovissimo England Is A Garden regge ancora benissimo – anzi, il Negozio all’Angolo spaccia ancora della buonissima roba, sempre fra la migliore sotto il cielo nel Regno di Sua Maestà la Regina.
Tjinder Singh e Ben Ayres
I Cornershop sono dei piccoli, grandi figli di Brian Jones e del disco più vituperato dei Rolling Stones, quel Their Satanic Majesties Request che nel 1967 fu fatto passare come sgangherata risposta delle Pietre al beatlesiano Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Appunto, “fatto passare” ma così non era del tutto, anzi: in verità, quello fu un po’ The 5000 Spirits Or The Layers Of The Onion, lo strepitoso album della Incredible String Band anch’esso dell’anno magico, elettrificato e in versione “gruppo” (la ISB era un duo, meglio precisare). Contando pure che il disco della ISB ebbe degli adepti non da poco: «Il miglior album dell’anno», parola di Paul McCartney proprio a fine 1967; «Per me e Marc Bolan, 5000 Spirits è stato un vero e proprio culto», assicurava David Bowie nel 2003. I Cornershop, in definitiva, sono figli di tutto quello splendido freakame britannico dei secondi anni 60 dove tutto pareva consentito – e, in effetti, lo fu davvero.
Cornershop metà anni 90
England Is A Garden si ricollega direttamente ai loro miglior lavori – ovvero sia When I Was Born For The 7th Time (1997), quello della già citata Asha, e Handcream For A Generation (2002), che in dote portava il clamoroso singolo Lessons Learned From Rocky I To Rocky III (pure il videoclip era roba per cui sdilinquirsi). Qui l’esplosione di colori è solo rinnovata, con quei brani-nenia che avvolgono a colpi di sitar e di tocchi dance molto scremandelici, per citare i loro colleghi scozzesi Primal Scream. Fai girare la dozzina di pezzi in scaletta – e molti restano attaccati come una calamita magica: One Uncareful Lady Owner, gemello diverso di Asha; The Holy Name, scherzetto a base acida molto Beck che regge benissimo per quasi 9 minuti; Cash Money, uno Stones meet Velvet Underground da leccarsi i baffi; Everywhere That Wog Army Roam, come se i Temptations o i Four Tops avessero portato il loro soul in India per un tuffetto nel Gange; St Marie Under Canon e No Rock Save In Roll, puro Brian Jones perso in un candy shop; Highly Amplified, mostro bifronte Beatles/ISB; I’m A Wooden Soldier, Chuck Berry giocato da esperti di Mario Bros.; Slingshot, lo psichedelico 1967 che rivive nel pandemico 2020. Più che adorabili questi Cornershop irreversibilmente turn on-tune in-drop out, come da diktat Human Be-In di Timothy Leary – accendi-sintonizzati-fottitene.