Una bella recensione che farà felici sostenitori e sostenitrici del #metoo. Le donne – quando non sanno cosa fare, fanno di tutto. Quelle che vogliono importi il tofu nella dieta. Quelle maniache dell’ordine. Quelle che ¾ dell’armadio è loro. Quelle che le scarpe fra il countable e l’uncountable, scelgono sempre la seconda opzione. Quelle che ci parli e non ti ascoltano. Quelle che si arrabbiano quando scherzi. Quelle che sai quando entrano in bagno. Quelle che non sai quando usciranno dal bagno. Quelle che litigano a ogni ora del giorno – e della notte. Quelle che spesso hanno sempre il mal di testa. Quelle che ti sbraneranno appena leggeranno tutto ciò – senza coglierne l’intento umoristico. Poi vi sono quelle che troverete in questo tributo al femminile all’arte dell’Orco di Pomona, naturalmente Tom Waits – il cantautore che si immaginò un’avveniristica musica che ha saputo raccozzare (unico verbo plausibile) il romanticismo virato seppia di Hoagy Carmichael, l’avanguardia primordiale di Captain Beefheart & His Magic Band, la canzone alta di Kurt Weill e il blues iroso di Howlin’ Wolf. Nondimeno Come On Up To The House: Women Sing Waits è il classico caso di bell’idea ma risultato, per buona parte, fuori misura consentita.
Tom Waits è un essere particolare, non lo puoi declinare a piacimento, oppure giusto elasticamente, come si fa con Bob Dylan, i Beatles o Chuck Berry (per citare, a caso, fra i più coverizzati di sempre) – poiché quasi per nessun altro vale il teorema “come le canta lui, non le canta alcun altro”. Basti a pensare come non vi sia partita fra Waits e un paio di suoi assidui interpreti, Rod Stewart e Bob Seger, che pur con buon intenti impallidiscono dinnanzi all’autore di Small Change (1976) e di Bone Machine (1992). Meglio dimenticare, poi, l’attrice Scarlett Johansson, che esordì nel mondo della musica con l’insulso e seccante Anywhere I Lay My Head: The Songs Of Tom Waits (2008) – dove si contavano pure un paio di (inutili) interventi del Duca Bianco, David Bowie. E, cattivissimi ultrà waitsiani che siamo, non possiamo evitare di infliggere una stoccata pure a Manuel Agnelli (Afterhours), che proprio quest’anno ha scricto sensu bombardato Martha (Those Were Days Of Roses), volendo sembrare Trent Reznor o Perry Farrell, ma finendo di fare il solito imitatore di Marilyn Manson a un contest paesano dove oggidì tutti, fra un panino con la porchetta e l’altro, sperano di finire a X Factor.
D’altra parte, qualcun altro è riuscito nell’impresa di rendere dignità allo Zio Tom: Tim Buckley e Lee Hazlewood, entrambi eccellenti nei primi anni 70 con la già citata Martha; Johnny Cash che direttamente dall’autore fu omaggiato di Down There By The Train, che l’Uomo in Nero immortalò per l’eternità con chitarra acustica e tanto gospel in American Recordings (1994); due Signore, l’ex compagna di TW Rickie Lee Jones e Marianne Faithfull, dimostrarono ovvie, grandi affinità con l’autore: una con Rainbow Sleeves e l’altra con Strange Weather; i Ramones con la potentissima I Don’t Wanna Grow Up, fra punk NYC e Phil Spector (e Tom Waits restituì il favore con una gran cover dei “fratelli”, Return Of Jacky And Judy); Dion, che nel 1978 dettò chiara legge con Lookin’ For The Heart Of Saturday Night con un perfetto wop’n’roll; la Heartattack And Vine molto voodoo, in entrambi i casi di Screamin’ Jay Hawkins e di Lydia Lunch; lo scomparso troppo presto Jeffrey Lee Pierce (Gun Club) che giocava perfetto a fare il Beastie Boys in Pasties And A G-String; Norah Jones, che con il suo inimitabile tocco sedusse alle prese con Long Way Home; e Holly Cole, eccezionale cantante canadese di contemporary jazz che incise un intero album di waitsismi, l’immancabile Temptation (1995). E tornando in Italia, dopo Agnelli, all’opposto belle e congeniali le cover-traduzioni in passato proposte dai benamati Mimmo Locasciulli, con China la testa (Hang Down Your Head), e Vinicio Capossela, con Lettere d’amore blue (Blue Valentines) e Cartoline di Natale di un prostituta di Minneapolis (Christmas Card From A Hooker In Minneapolis), entrambe proposte live e rintracciabili nel mare magnum della rete.
Ma torniamo a Come On Up To The House, dunque. Che, francamente, per una larga fetta non decolla a dovere. 12 rappresentanti del lato più bello della luna che, ahinoi, per lo più non colgono per nulla la vena waitsiana facendo suonare il tutto come un James Taylor qualunque (non preoccupatevi, siamo dei fan del caro JT – il nostro è solo personale fonosimbolismo, giusto per rendere l’idea). Peraltro, la cosa suona strana per un paio di altri motivi: 1) la componente Waits femminina è rappresentata da Kathleen Brennan, moglie dell’artista che iniziò a scrivere con il marito fin dai tempi di Rain Dogs (1985), mettendo firma quale co-autrice (e co-produttrice) a molto del materiale degli ultimi 30 e passa anni by Waits – e 2) ben 5 dei 12 pezzi scelti provengono da Mule Variations (1999), il disco più “al femminile” di Waits nonché frutto di un lungo periodo di crisi interpersonale con la Brennan, poi ricucitosi. Tant’è.
Meglio iniziare con ciò che ci è piaciuto. Su tutto Aimee Mann: l’ex ‘Til Tuesday è una che a gente molto affine allo Zio Tom, come Harry Nilsson (One) ed Elvis Costello (The Other End Of The Telescope), ha sempre dato del tu – e anche con Waits non sbaglia, prendendosi cura di Hold On con forza e temperamento, mantenendo intatto lo spirito originale senza mancare quel tocco di personalità cui l’artista di Magnolia (1999) non ha mai fatto difetto. Altro gran numero di pregio lo offre Patty Griffin: la texana inchioda all’ascolto di Ruby’s Arms, lo spettacolare numero che chiudeva Heartattack And Vine (1980), fra piano e orchestrazione senza tradire lo spirito primigenio ma infilando, alla perfezione, il proprio carattere. Notevole anche Corinne Bailey Rae, sorta di risposta inglese a Norah Jones, che gioca easy e vellutata con uno dei grandissimi classici di Waits, Jersey Girl – strumentazione buttata lì leggera e un vocino erotico che ti conquista, tipo quella maliarda cui soccombi al primo schiocco di dita. Tom Traubert’s Blues, forse il brano simbolo del Waits 70s, non è mal proposto dalle Wild Reeds, giovani epigone delle McGarrigle Sisters – certo che se Kate (r.i.p.) & Anna fossero state ancora in giro, il risultato sarebbe stato ben altro. La moglie del grande Greg Brown (e, in tempi andati, protégé di Merle Haggard), Iris DeMent, non gioca male la carta House Where Nobody Lives, country-blues ol’ time in ogni nota pervaso dai fantasmi di Patsy Cline e di Tammy Wynette.
Il resto di Come On Up To The House però sono dolori di stomaco – fitte spesso acutissime. Vi stavano sulle palle gli Eagles (sbagliando e pure di molto) che in On The Border (1974) ripresero Ol’ 55? Allora quando le sorelle Allison Moorer e Shelby Lynne, noti prezzemolini degli ultimi scorci country-pop, le sentirete gorgheggiare tipo Dixie Chicks la celebre (e splendida) car song non potrete che chiedervi: perché? La nostra risposta è: just push skip. Rosanne Cash, ovvero non bastano un cognome così e un padre che di nome faceva Johnny: il canto randagio Time fatto in modo consolatorio ed edulcorato, ridotto a compitino cantautorale è così anonimo che risulta urticante. Angie McMahon, novizia indie australiana che ha esordito proprio nel 2019 – Take It With Me qui oltremodo eterea, fra voce-birignao e ambient all’acqua di rose con il blues pianistico fissato in Mule Variations non hanno nulla a che spartire. You Can Never Hold Back Spring, scritta, incisa e “impersonata” da Tom Waits per il (brutto) film La tigre e la neve (2005) di Roberto Benigni, era già roba ordinaria in origine – qui con il taglio vintage pop studiato dalla giovane texana Kat Edmonson non si libera dall’ordinarietà. Il Waits goes Springsteen di Downtown Train nell’ugola di Courtney Marie Andrews è carica di urlatissima retorica all American, tipo Melissa Etheridge, ben oltre il punto di cottura – per non dire di rottura. Di routine, e sappiamo quanto la routine non appartenga al mondo di Tom Waits, Phoebe Bridgers oltremodo enfatica in Georgia Lee; e lo stesso vale per il trio delle Joseph, che tentano la carta Joni Mitchell style in Come On Up To The House – risultando molto stucchevole. Come il 75% di questo tribute album.
Adesso fate una bella cosa. Andate alla lettera W della vostra record collection, dove naturalmente trovate Tom Waits. Estraete Nighthawks At The Diner (1975) e dategli una ripulita. Mettetelo nel piatto e che la puntina sia posta in Better Off Without A Wife. E godetevela, voi cani randagi che amate Raymond Carver e Charles Bukowski come li ha sempre amati colui che fu eroe dei bassifondi losangelini: “And those who feel that they’re the ones/Who are better off without a wife/I like to sleep until the crack of noon/Midnight howlin’ at the moon/Goin’ out when I want to/Comin’ home when I please/I don’t have to ask permission if I want to go out fishin’ “.
Foto: Tom Waits e la moglie Kathleen Brennan
Patty Griffin
Corinne Bailey Rae