Cartoline da Montreux, 1973. Carole King era la regina del mondo: usciva dagli anni 60 come la donna che dietro le quinte, con l’allora marito Gerry Goffin, aveva fornito un’intera generazione della propria colonna sonora – e poi si era messa comoda nei 70 con l’eccezionale, irripetibile successo di Tapestry (1971), il disco par excellence del mondo cantautore femminile, 20 settimane al #1 delle classifiche di Billboard e svariati milioni di copie vendute world wide. Detto in breve, siamo nel pieno del trionfo. E all’ombra di quel disco-monstre germogliano belle fotocopie come Music (1971) e Rhymes & Reasons (1972) ma pure il concept album Fantasy (1973), filotto che porta dritto a questo Carole King Live At Montreux 1973, Cd+Dvd – operazione che finalmente documenta live quel periodo di assoluto stato di grazia.
Nel 1996 già fummo illuminati dallo splendido The Carnegie Hall Concert, registrato nel giugno 1971, dove si esibiva, scricciolo di donna forte e irresistibile, con ad accompagnarla giusto gli ex Fugs Danny Kortchmar (chitarra) e il nuovo marito Charles Larkey (basso), peraltro con lei già nei City per l’unico album del trio (l’eccellente Now That Everything’s Been Said, 1968); nonché l’amico James Taylor in qualche pezzo e da piccoli interventi d’archi condotti da David Campbell (per chi non lo sapesse, padre di Beck). Questo At Montreux 1973, in tema live, ne sembra il complemento tutt’altro che superfluo, con il concerto costruito in modo decisamente diverso rispetto a 2 anni prima – e che, fra l’altro, come performance segue giusto di 1 mesetto quella al Central Park newyorchese il 27 maggio 1973, dove l’artista e la sua band attirarono più di 100.000 persone (nel parco James Taylor, Elton John e sopratutto Simon & Garfunkel in reunion arrivarono ben dopo).
18 brani che sono un crescendo in tutti sensi, con la King che attacca da sola ma che poi nell’arco della performance regala un’escalation con un gruppo pieno di tutto, fiati compresi, che colorano il suo repertorio di belle tinte che profumano molto di Steely Dan, di Santana ma anche di Weather Report, che all’epoca erano fra le band che viaggiavano più forte nella contaminazione rock–latin–jazz. Sono passati più o meno 45 anni e ascolto dopo riascolto ti domandi come mai un disco del genere, che avrebbe potuto essere un classico live, non sia uscito a tempo dovuto e non in questa epoca lavica dove tutto si perde nel giro di un click. Mistero. Ma non facciamoci troppe domande, godiamone per qual che è: un grande live album, fatto di tanta adrenalina al femminile.
La voce di Carole è perfetta nelle proprie intonazioni, fra nervo sicuro e arenosa fragilità – tratti che sono stati, del resto, la sua fortuna come interprete. Con il tutto che si cala perfettamente nell’orchestrazione in costante ascesa della performance. Per 5-6 pezzi la King scalda il suo venerante pubblico con brani piano & voce che fin da subito infiammano l’atmosfera (sentire urla e applausi sparsi un po’ ovunque), come il classico opener I Feel The Earth Move, Smackwater Jack e sopratutto Up On The Roof, uno dei grandissimi pezzi anni 60 che a partire dalla prima interpretazione dei Drifters ha veramente definito un’era – e una città, New York City. Poi arriva la band e sopratutto il repertorio di Fantasy, il song cycle che addirittura qualcuno, all’epoca, paragonò a What’s Goin’ On (1971) di Marvin Gaye. Muliebre, naturalmente. Un disco fatto di sogni e di speranze dove Carole King, cosa molto interessante da afferrare, in ogni canzone si trasforma da se stessa ad afroamericana; da madre negletta a latinoamericana e altro, in una specie di sommario sociale e filosofico.
Il segmento dedicato all’album si apre e si chiude con Fantasy Beginning/Fantasy Ending – e nel mezzo il viaggio è davvero cosa rimarchevole. You’ve Been Around Too Long, per esempio, è un attacco diretto alla mentalità razzista (allora come oggi?) dei cari, vecchi Stati Uniti d’America, dove la musica è potente e le parole ancor di più (“You’ve been around too long/Not to realize what’s going on inside/I’m just like you/I’m doing the best that I can do to make my stride“). Per continuare con Haywood, che narra dettagliatamente le vicende di un giovane perso nelle strade fra spaccio e paradiso artificiale; e con A Quiet Place To Live, dove Carole entra in un ghetto con i suoi acquarelli. Fantasia, appunto. La donna che racconta di scontri familiari violenti come una guerra in Being At War With Each Other, si trasforma presto in quella pointed finger di Welfare Symphony o, ancora, in quella latin di Corazón, che sfodera un groove degno dei Santana 24 carati di quell’epoca. Piccola considerazione: se in Fantasy forse si coglieva una certa schematizzazione di “retorica umanitaria”, questa versione dal vivo un po’ più succinta sembra cogliere meglio gli intenti del lavoro, tra feeling sinceramente populista e trascinante vitalità musicale, non fosse altro per come la band punti nel trascinare l’artista dritta al proprio bersaglio.
Volati persi per le note di Fantasy, fra delicate prediche e forti prese di posizione dei suoi occhi innocenti (in fondo gli artisti, quelli veri, servono anche a quello…), il finale riporta diretti sulla terra, con la cantante di NYC che dà il commiato al pubblico del Lago Lemano con dei sicuri “winner”, come You’ve Got A Friend e (You Make Me Feel Like A) Natural Woman, benzina che ha fomentato le carriere sia di JT sia di Aretha Franklin – e reso lei stessa immortale. Piccola nota a margine: il Dvd che accompagna l’album ha una buona resa sebbene in loco venne utilizzata solo un piccola crew con telecamere fisse, che non offrono esattamente il risultato di un film di Martin Scorsese – ma non importa, i fan di Carole King apprezzeranno senz’altro di poter vedere, oltre che ascoltare, la propria eroina in un momento di sicuro suo splendore.