Messa la mano nella bocca di fuoco del leone con la tetralogia che va da Another Side Of Bob Dylan (1964) a Blonde On Blonde (1966); con il tour mondiale più controverso ma anche celebrato di tutta la musica rock (da Newport 1965 al Judas di Manchester 1966); e con l’incidente motociclistico che, vuole la leggenda, quasi lo strappava alla vita come un James Dean 10 anni dopo – Bob Dylan in quella fase rovente è stata la cosa “più vicino a Dio” che si sia vista fino a oggi, da che Elvis Presley e Chuck Berry accesero la miccia. Sarebbe bastato solo quanto scolpito fino al 1966 per garantirgli il trono – e l’infinito. Eppure, fra lune in piena e colpi di genio, la storia si sarebbe arricchita di molto, molto altro – come ben sappiamo.

Travelin’ Thru, 1967-1969, 3 Cd per 2 ore e ¼ di musica, è la 15ma istallazione delle oramai classiche The Bootleg Series iniziate nel 1991 con i primi 3 volumi – e che negli anni hanno portato alla luce tesori inestimabili. Dopo l’apoteosi di Blonde On Blonde, qui tocca alla svolta (né la prima né l’ultima – il concetto di svolta è una costante dylaniana). In verità, tutto doveva prendere un’altra piega. Dylan, ripresosi dall’incidente, era tutto preso con quella che a breve sarebbe diventata The Band a incidere la miniera infinita di musica passata alla storia come The Basement Tapes, solo che a un certo punto apre la Bibbia e l’ispirazione gli fa scrivere una manciata di canzoni, per così dire, ex parte. Sono le canzoni di John Wesley Harding (1967), il secondo concept album dell’artista dopo il brechtiano The Times They Are a-Changin‘ (1964) – artista che peraltro negli anni a venire di dischi a tema ne scriverà diversi, come Pat Garrett & Billy The Kid (1973), Blood On The Tracks (1975), Slow Train Coming (1979) e Saved (1980). Inizialmente l’idea era quella di buttar giù dei demo a Nashville con un paio di musicisti già usati in passato, Kenny Buttrey (batteria) e sopratutto il grande jolly Charlie McCoy (basso), per poi incidere tutto con la Band. Solo che udito i fatidici demo, Robbie Robertson ritenne essere già tutto fatto & finito – che non vi è bisogno più della Band né di qualche sovraincisione di alcuno di essi (nella fattispecie Robertson e Garth Hudson, come accennato dallo stesso Dylan) – d’altronde, gruppo in quei giorni impegnato a mettere a punto l’esordio Music From Big Pink (1968).

La prima parte di questa nuova puntata della Serie Bootleg è appunto dedicata alle session di JWH, che oltre ai due sessionmen già citati prevede anche Pete Drake (steel guitar), disco che ha portato canzoni assolutamente fondamentali nel songbook dylaniano come All Along The Watchtower (ovviamente), il tour de force fra Vecchio Testamento e banditi picareschi intitolato The Ballad Of Frankie Lee And Judas Priest (“Judas pointed down the road and said, Eternity/Eternity, said Frankie Lee with a voice as cold as ice/That’s right, said Judas Priest, Eternity/Though you might call it Paradise” – recitano alcuni dei folgoranti versi), Dear Landlord, The Wicked Messenger, la title track e Drifter’s Escape. Solo 7 le take scelte, che non fanno nemmeno l’intero JWH, siccome l’album era composto di 12 numeri. E a spiccare sono principalmente la versione più lunga e slow di As I Went Out One Morning, con atmosfere musicali che non è azzardato affermare anticipino Blood On The Tracks; I Am A Lonesome Hobo con un taglio più robusto e blues rispetto a quella già nota; e Drifter’s Escape nella take 1, che qui nella melodia ha vaghe reminiscenze di Just Like Tom Thumb’s Blues da Highway 61 Revisited (1965). Tutto, naturalmente, fra Paradiso ed Eternità.

Travelin’ Thru in copertina riporta un bel “featuring Johnny Cash” – non per niente. L’Uomo in Nero con il suo peculiare vocione graziava l’opener di Nashville Skyline (1969), Girl From The North Country, il nuovo tuffo di Dylan nella Music City aka Nashville. I 2 naturalmente, mossi da anni di amicizia e di ammirazione reciproca (e dalla stessa casa discografica), si unirono alla perfezione come 2 fratelli ritrovati – o come l’allievo che i maestri un po’ li ha soppiantati ma pure non li ha dimenticati. Le loro session sono state già alacremente bootlegate, solo che qui è tutto messo in ordine e ingrandito per benino. La coppia si “allena” con classici cashani come Ring Of Fire, Guess Things Happen That Way (scritta dal fratello di spirito di Cash, Cowboy Jack Clement), Big River, I Walk The Line e I Still Miss Someone; omaggi a Elvis con Mystery Train di Junior Parker; al folk con lo strepitoso traditional Careless Love; e come d’obbligo qualche perla dylaniana come Don’t Think Twice, It’s All Right e sopratutto One Too Many Mornings, che i 2 fecero malissimo a lasciare nei cassetti siccome è certamente uno degli highlight di tutto l’incontro. In quegli anni, poi, dove c’era Cash c’era anche un altro angolo del Million Dollar Quartet (gli altri 2 furono Elvis e Jerry Lee Lewis, va da sé), Carl Perkins, che la sua inconfondibile chitarra fa capolino in That’s All Right, Mama di Arthur Crudup e nella sua Matchbox. Piccolo dubbio: in quei giorni Dylan e Perkins scrissero un pezzo insieme, il bellissimo rockabilly tutto wah-wah Champaign, Illinois, pubblicato da Carl nell’eccellente On Top (1969) – chissà se anche Dylan abbozzò almeno un demo? Qui non ve n’è traccia – e restiamo curiosi quanto insoddisfatti.

Ma finalmente, eccome, spunta quello che tutti forse attendevano e che alcuno aveva udito finora: Wanted Man, scritta da Bob e Johnny insieme, conosciuta solo nella versione di Cash (qualche lustro dopo anche Nick Cave & The Bad Seeds ne faranno una versione pericolosa e deflagrante) e che qui si svela per la prima volta come duetto fra i 2, informale ma bellissimo. Il Sacro Graal, insomma – boom chicka boom a minacciose tinte mercuriali. Chiude la partita Dylan-Cash la tripletta di brani presentati in tivù al Johnny Cash Show chez ABC: I Threw It All Away, Living The Blues (allora ancora inedito – l’anno seguente sarebbe poi stato uno dei gioiellini dati a porci in Self Portrait) e il già citato Girl From The North Country.

Cash a parte, Nashville Skyline è trattato un po’ come JWH, nel quale Dylan usa gli stessi musicisti con in aggiunta diversi altri, fra cui virtuosi quali i chitarristi Norman Blake e sopratutto Charlie Daniels: le varie To Be Alone With You (decisamente più rock rispetto a quella che conoscevamo), One More Night, I Threw It All Away, Tell Me That It Isn’t True (più bella e agile di quella scelta all’epoca) e Lay Lady Lay tutte in different take, completano a massima ampiezza il quadro Dylan goes to Nashville, quello con voce ripulita dall’aver smesso di fumare, come sostenne lui; e da qualche trucco di microfono per farla somigliare quanto più possibile a quella di Charlie Rich, come sostengono più voci di corridoio (iniziando da quella molto autorevole del suo produttore di quegli anni, lo scomparso Bob Johnston). Ben 3 le outtake pubblicate ora ufficializzate: l’originale Western Road, bell’esercizio di country-blues che non avrebbe sfigurato nell’album pubblicato 50 anni or sono; e due classic Cash, I Walk The Line (già apparsa nel mercato illegale) e Folsom Prison Blues, potentissime e che, nei fatti, sono le prime session per la porzione studio di Self Portrait.

Non si tratterebbe di un lavoro di Bob Dylan se non vi fosse qualcosa della sua tipica imprecisione comunicativa. Travelin’ Thru dice che il box set tratti gli anni 1967-69; difatti, a chiudere il tutto, 4 brani in totale, incisi dal futuro Nobel con il cavaliere del bluegrass progressivo (e progressista) Earl Scruggs nel maggio 1970 e usciti già nel magnifico documentario Earl Scruggs/His Family And Friends (1971) e nell’album Earl Scruggs Performing With His Family And Friends (1972) – che a essere sinceri stanno meglio qui, nel Bootleg Series nashvilliano che in quello newyorchese Another Self Portrait (1969–1971) (2013). In ogni caso, Travelin’ Thru, 1967-1969, che vanta anche ottime liner notes del giornalista Colin Escott e di quella gran figlia di… Rosanne Cash, è senza dubbio uno fra i reissue più importanti del 2019 – e non potrebbe essere altrimenti, quando il nome protagonista è quello di Bob Dylan.

Foto: Bob Dylan & Johnny Cash