Eterno, infinito – Bob Dylan non finisce mai. Mai. Poveri Beatles, povero Bruce Springsteen, poveri Pink Floyd, povero Neil Young, poveri Rolling Stones, povero David Bowie, poveri Beach Boys – che se prendi tutte le loro operazioni di catalogo dove rimettono insieme le fila fra cose rare, bootlegate e inedite che siano, impallidiscono dinnanzi alla discografia parallela di His Bobness. Roba che ti fa sempre esclamare, com’è possibile che questo o quello sia rimasto fuori da tal album – o perlomeno non sia rimasto buttato lì, come una cassa di champagne di quello buono, sepolto chissà dove a prender polvere per decenni. Anche roba per incalliti dylaniani come la serie 50th Anniversary Collection, giunta ora al 6° volume, che serve a preservare i diritti (in Europa) delle registrazioni, cui ogni uscita è pubblicata in pochissime copie da Mamma Columbia, giusto per fare impazzire collezionisti e affezionati (unico volume pubblicato regolarmente è 50th Anniversary Collection 1965 del 2015, box di ben 13 Cd) – mostra gioielli di casa Zimmerman che saranno sì rimasugli, ma di quelli gustosissimi, di quelli che il giorno dopo al forno ci fai ancora un gran piatto. Non agitatevi troppo, il triplo Cd è già sparito, salvo che non troviate in eBay et similia a cifre fuori portata. Per l’ascolto, online trovate e scaricate tutto.
Bob Dylan, New York City, 1970
Chiaro companion di The Bootleg Series Vol. 10 – Another Self Portrait (1969–1971) (2013), 50th Anniversary Collection 1970 ci piace pensare che prenda spunto, in verità, dal più recente Bootleg Series, quel Travelin’ Thru, 1967–1969 (2019) che rimetteva in fila l’epoca che andava da John Wesley Harding e passava per la fase Nashville Skyline/Johnny Cash: i più attenti avranno notato un paio di cose buttate lì come session di Self Portrait (1970), 2 cover del catalogo Cash come Folsom Prison Blues e Ring Of Fire registrate, però, senza Cash & Co in uno studio a Nashville nel maggio 69 chez Charlie McCoy, Charlie Daniels e altri. Dopodiché Dylan fa calmare le acque, probabilmente ha faccende famigliari da risolvere – tipo portare la moglie Sara e l’oramai consolidata progenie a vivere a New York dopo gli anni passati nell’idillio montanaro di Byrdcliffe, nei pressi della ben nota Woodstock. Passano i mesi, il produttore Bob Johnston è sempre al suo fianco come in ogni altra cosa fatta fin lì dai tempi di Highway 61 Revisited (1965), Al Kooper (tastiere) è richiamato all’ovile dopo i successi con i Blues Project, i Blood, Sweat & Tears e la Super Session con Mike Bloomfield e Stephen Stills, è confermato il già citato polistrumentista amico fraterno di Johnston e futura star del southern rock Charlie Daniels («Con Daniels in studio qualcosa di buono ne esce sempre», parola di Dylan) e scippa un pressoché sconosciuto altro polistrumentista dalla band di Jerry Jeff Walker, David Bromberg – pure lui destinato a gloria solista.
Interno giorno Columbia Studio Building, al numero 49 di East 52nd Street, New York City – 3, 4 e 5 marzo 1970. Nel pieno delle registrazioni di Self Portrait, Kooper, Bromberg e altri a stargli intorno. Schizzi di cover varie ed eventuali da mettere nell’album o forse no, vedi Universal Soldier (Buffy Sainte-Marie), Thirsty Boots (Eric Andersen), il traditional Little Moses, Come A Little Bit Closer (Jay & The Americans), un altro traditional come Spanish Is The Loving Tongue – fra gli altri. Ma pure varie take della sua Went To See The Gypsy – il pezzo che, narra la leggenda, pare sia dedicato a Elvis Presley e che sarebbe finito in New Morning nell’autunno seguente.
La copertina dell’Lp New Morning (1970)
Stesso luogo – 1 maggio 1970. Family Bob rumina per capire cosa fare, si tiene in allenamento dopo aver messo insieme il già citato Self Portrait in procinto d’esser pubblicato il mese seguente (il disco che fu bollato con il celebre «Che cos’è questa merda?!?» dal critico Greil Marcus nelle colonne di Rolling Stone ma anche difeso pubblicamente da Marc Bolan in una famosa lettera pubblicata in Melody Maker – sintomo che la verità forse sta nel mezzo…). Bromberg e Kooper non sono presenti ma vi sono Daniels e Russ Kunkel (batteria) – ma, soprattutto, quel dì di piena primavera Big Apple vi è a far visita George Harrison, fresco dallo scioglimento dei Beatles e che con certezza stava pensando a come mettere a frutto le idee per il futuro stracciaclassifiche All Things Must Pass (1970), il lavoro di un ex Fab Four più di successo di sempre. Il bootleg di quella session è ben noto da decenni – salvo che la source non è mai stata questo granché, a livello di qualità sonora.
Eccoci finalmente accontentati: 1 ora e 1/4 di Beatle George che accompagna Dylan in perfetta pulizia del suono – e diverse cose inedite. Sicuramente è in quel momento che Dylan regala If Not For You allo Scarafaggio Quieto – e probabilmente anche I’d Have You Anytime (poi nel famoso triplo di George) è stata scritta dai 2 in quelle ore, anche se qui non ve n’è traccia. Tutto suona informale, con la coppia che si diverte a scartabellare nel repertorio classic Dylan, vedi Gates Of Eden, Mama, You’ve Been On My Mind (anche questa incisa da Harrison ma in forma di demo e rimasta inedita per decenni salvo apparire nell’edizione deluxe della colonna sonora di Living In The Material World, il film documentario del 2011 diretto da Martin Scorsese), Just Like Tom Thumb’s Blues, It Ain’t Me, Babe (versione particolarmente ispirata e piano-driven), I Don’t Believe You (She Acts Like We Never Have Met), I Threw It All Away, One Too Many Mornings (altro momento degno di nota), Song To Woody, Rainy Day Women #12 & 35 e Honey, Just Allow Me One More Chance.
Le carte sono mischiate con i pezzi del futuro New Morning, con particolare attenzione per una sequenza di Sign On The Window, dove la slide guitar con il “marchio registrato” dell’ex Beatle è ovunque. Non mancano cover, di puro allenamento: All I Have To Do Is Dream (Everly Brothers), (Ghost) Riders In The Sky (Stan Jones), il traditional Fishing Blues, Cupid (Sam Cooke), I Met Him On A Sunday (Shirelles) e Matchbox (Carl Perkins, il grande idolo di George). Naturalmente qui come nei bootleg, a far parlare molto è sempre la rilettura della beatlesiana Yesterday – e non abbiamo mai capito perché Dylan sia sempre stato interpretato come in mocking di Paul McCartney: il tentativo, ben lontano dall’essere una presa per i fondelli, con quel passo bluesy di prova di studio, è tutt’altro che disdicevole né volutamente comico. Ma magari ci sfugge qualcosa – ai posteri l’ardua sentenza. Anche se certi ascoltatori, in preda a troppa immedesimazione e a fantasticherie varie, forse farebbero bene a darsi una regolata.
Un vecchio bootleg della Bob Dylan-George Harrison session
1-5 giugno – e qui 50th Anniversary Collection 1970 si fa davvero serio. Kooper, Daniels, Bromberg, Kunkel, Ron Cornelius (chitarra) e le coriste sono schierati per fare le cose come si deve, in previsione di New Morning. Prima di tutto Alligator Man del leggendario cajun-country singer Jimmy C. Newman, messa lì in 3 versioni: una quasi gospel, una con taglio rock con Daniels a dettar legge e una country degna di Jerry Lee Lewis o di Elvis – sequenza di gran livello. Potentissime anche le 2 versioni del traditional Sarah Jane, che poi apparirà nel disco-ripicca della Columbia Dylan (A Fool Such as I) (1973), quando Dylan per un breve periodo passò all’Asylum di David Geffen. Jamaica Farewell di Harry Belafonte (l’uomo che nel 1962 ospitò Dylan, all’armonica, nel sua prima studio session da professionista) è bella quanto leggera come una piuma – il Bob che si auto-educa in work in progress, che nel nostro angolo di cielo piace tanto. Lovely. Così come una delizia sono le 2 take del public domain irlandese Lily Of The West, glabre nell’essenza folk del brano anziché la pantomima spinta apparsa in Dylan (A Fool Such as I).
Stesso dicasi per l’omaggio a King Elvis, Can’t Help Falling In Love: molto meglio qui in versione minimale che nella versione del vituperato Dylan di 3 anni dopo. A proposito di Presley, che la incise nel 1966: 2 versioni di Tomorrow Is A Long Time, vecchia perla estromessa all’ultimo da The Freewheelin’ Bob Dylan (1963), qui con full band – una più rock blues e l’altra con tocchi country soul. Tanta bellezza per le nostre orecchie. Un gioiello Bring Me A Little Water, Sylvie, plantation work song (da noi sarebbero i canti delle mondine, per intendersi…) che Dylan-la-spugna avrà mutuato da qualche parte fra Harry Smith e Alan Lomax – e che manda letteralmente in solluchero. Long Black Veil – ed eccoci al capolavoro di questo triplo: la nota murder ballad riconducibile a Lefty Frizzell che già fece le fortune di diversi conoscenti di Dylan (Joan Baez, Johnny Cash, The Band), è portata a termine in una versione di quasi 7 minuti rauchi, sacri, inquietanti – roba con un sound come se Nick Cave & The Bad Seeds (che il pezzo, una quindicina d’anni dopo, lo fecero proprio) o i White Stripes, loro e solo loro, abbiano avuto una macchina del tempo o perlomeno un acetato in copia unica di questa meraviglia, per copiarne spudoratamente il sound. Nobel o non Nobel, dinnanzi al genio bisogna solo inchinarsi. Il resto è materiale New Morning ma in versioni different: Sign On The Window, la sempre emozionante Day Of The Locusts, If Not For You, One More Weekend (uno dei grandi blues di Dylan), Winterlude (un certo Francesco De Gregori vi ha scritto sopra Buonanotte Fiorellino…), Three Angels (ooopppps, Principe subito recidivo: palese “ispirazione” per Atlantide…), New Morning, Went To See The Gypsy e Father Of Night.
Dylan con Charlie McCoy e Charlie Daniels, Nashville, maggio 1969
12 Agosto, probabilmente a NYC fa molto caldo e la famiglia è in spiaggia a Long Island – e Bob corre in studio. Non è contento. Chiama Buzzy Feiten, l’appena acquisito nuovo chitarrista della Butterfield Blues Band – perché If Not For You va provata in un altro modo rispetto alle già tante take dei mesi precedenti. Eccole: la take 1, con chitarra squillante; e take 2, con molto jazz nel piano e molto gospel nelle voci di contorno. Inquieto sempre e comunque, Bob Dylan – allora come oggi, come ogni volta.
I dylaniani, almeno quelli veri, fra loro s’interpellano e si scambiano opinioni, pungoli, motivazioni. Ed è per questo che cediamo volentieri l’ultima parola alle brillanti intuizioni di Gianluca Mondo, cantautore piemontese e finissimo conoscitore fra i più preparati in Italia (e non solo) dell’intricatissimo mosaico Bob Dylan – che su 50th Anniversary Collection 1970 ci regala un pensiero alquanto interessante: «Ho messo tutti questi nuovi brani nei miei file cronologici – e devo dire che ascoltando le session per intero mi è venuto un certo pensiero di assistere a una sorta di The Basement Tapes Vol 2. Tra i pezzi folk, le cover contemporanee, gli originali e quella sensazione di fare un po’ tutto a istinto – vedi musicisti spesso a caso sugli accordi… senza offesa per Charlie Daniels – che ogni tanto con quel suo modo di suonare il basso “combat” non centra manco una tonica. Alla fine, ascoltando tutto per bene, ho rivalutato molto queste session, soprattutto quelle di Self Portrait che senza overdub – batteria, orchestre, voci, etc – alla fine poteva essere un album davvero topico».