Bernard Fowler. Pochi sanno chi sia solo a citarne il nome, ma milioni lo hanno visto dal vivo poiché da alcuni decenni fa il corista dei Rolling Stones, collaborando con la band inglese anche in studio fin dai tempi di Steel Wheels (1989) per arrivare a A Bigger Bang (2005). Ruolo che, fra l’altro, si è guadagnato con collaborazioni precedenti fatte con grandi nomi, sulle corde di una musica ben trasversale per stile e generi: Mick Jagger (tracce di Fowler nel debutto solista dello Stone: She’s The Boss del 1985), Herbie Hancock, Sly & Robbie, Yoko Ono, PiL, Philip Glass, Ryuichi Sakamoto, Bootsy Collins e una pletora d’altri. Al più che buono Friends With Privileges (2006) e all’ottimo The Bura (2015), ora si aggiunge il nuovo disco in proprio, Inside Out, la cui idea di base è a dir poco astuta. Fowler, difatti, rilegge quasi una decina di pezzi degli Stones arrangiati in stile proto–rap/jazz–poetry sulla scia dei Last Poets e sopratutto di Gil Scott-Heron. Una scelta che ha radici ben precise, come racconta lo stesso cantante: vale a dire mettere in risalto la bellezza dei testi di Mick Jagger – e a ragione, vien d’esclamare! Già, perché chi meglio di qualcuno che sul palco è “francobollato” al Divin Mick può esserne entrato dentro quelle “lyrics”? Il passo di farci un album, insomma, è stato breve – anche perché, come ha scritto Keith Richards nella sua autobiografia Life (2010), davanti a certi testi di Mick e al loro taglio “rock & roll literature” bisogna solo tirarsi giù il cappello.
Del corpus stonesiano qui scelto, Fowler fa un po’ quello che Scott-Heron fece con la leggendaria cover di Inner City Blues (Make Me Wanna Holler), il capolavoro tratto da What’s Going On (1971) di Marvin Gaye, incisa qualche decennio fa dal Signor The Revolution Will Not Be Televised: destruttura in senso declamatorio, ma non perde il significato dei pezzi né la musicalità che ha fatto grande i brani originali – ponendo l’accento, marcatissimo, sulla parola. Prendi, ad esempio, le magnifiche riletture di Sister Morphine e di Sympathy For The Devil: roba da black panther, tanto sembrano uscire non da una chiesa bensì da qualche scantinato metropolitano, dove rivalsa e rivoluzione erano l’ordine del giorno. Malcolm X e Small Talk at 125th and Lenox, per farla breve – gospel decisamente deviato.
Inside Out, che d’altronde trova scintilla già nel precedente The Bura dove si può scovare una cover dello stesso tenore di Can’t You Hear Me Knockin’ in duetto con Chuck D (Public Enemy), ha anche un altro pregio: tolti i due “milestone” già citati e l’hit Undercover Of The Night, l’album scava nel repertorio Stones estraendo vere perle per palati fini come Time Waits For No One (“Yes, star crossed in pleasure the stream flows on by/Yes, as we’re sated in leisure, we watch it fly/Drink in your summer, gather your corn/The dreams of the night time will vanish by dawn”, cantava un Jagger turbato nei solchi di It’s Only Rock’n’Roll, 1974), It Must Be Hell, All The Way Down, Tie You Up (The Pain Of Love), nonché 2 versioni discostanti una dall’altra della stupenda Dancing With Mr. D, numero molto decadente epoca Goats Head Soup (1973) dove Jagger si districava fra demoni, il Signor Morte e satanismo stile Kenneth Anger (“Down in the graveyard where we have our tryst/The air smells sweet, the air smells sick/He never smiles, his mouth merely twists/The breath in my lungs feels clinging and thick/But I know his name, he’s called Mr. D/And one of these days, he’s going to set you free”). Inside Out: Rolling Stones “alla rovescia” promossi, promossissimi!