Dev’essere difficile essere Bob Dylan alla soglia degli 80 anni – voce del verbo scoprirelacquacalda. Tutti aspettano di tutto da te, tutti parlano di te con gli aggettivi più prontamente altisonanti, dal NY Times a La Repubblica fino a Rolling Stone i giornali ti regalano titoli trionfali. Sei Bob Dylan, probabilmente il personaggio americano d’arte e di cultura più importante dagli anni 60 in poi, quello cui hanno affibbiato di tutto: Oscar e multipli Grammy, Pulitzer e Legion d’onore – addirittura il Nobel. Sei Bob Dylan. E dopo il Nobel pubblichi un disco molto, molto fuori del comune come Rough And Rowdy Ways (“Maniere ruvide e da bullo” – dito puntato a Donnie Trump? Speriamo…), su etichetta Columbia/Sony, pensato e inciso con la fida live band, peraltro rimescolata non poco nell’ultimo paio d’anni. 1 ora e 10 di musica & parole in verità poco auto celebrative (con tutto il diritto che His Bobness ne avrebbe) ma che, anzi, oltre a tener a debita distanza il rock è un turbinìo di cliché ben venduti fra blues, folk e quella che vien di chiamare musica antica; e di voci del passato che si rincorrono, eco di chi come a long way – di chi ha percorso molta strada, tanta quanto noi comuni mortali nemmeno possiamo immaginare. Sei Bob Dylan – che, oltre a cantare con una voce quanto mai saporosa, accantona le tastiere e torna solo a suonare la chitarra.
Naturalmente quest’album esce in tempi strani, con la situazione planetaria quantomeno complessa che tutti conosciamo – in qualche modo decantati nei 17 minuti di Murder Most Foul, pezzo che parte dall’assassinio di JFK e trascina in un fiume lavico di ricordi e di nostalgia, di sferzate e di citazioni inattese, come se quello che stiamo vivendo, in verità, fosse solo un minuscolo puntino di un cosmo infinitamente più grande di noi, del tempo e dello spazio. Lo spazio, fra l’altro, è quello occupato nel 2° Cd, come se MMF fosse una cosa a sé stante, dono extra partes rispetto a Rough And Rowdy Ways, con Alan Pasqua al piano come ai tempi della doppietta 1978 At Budokan–Street Legal – tanto più che, volendo, il tutto avrebbe potuto essere raccolto in un solo supporto. Capiamo il messaggio, però.
Tutto inizia con il più strano e impalpabile dei possibili opening tune, I Contain Multitudes – non fosse altro che Bob Dylan nel corso tempo ci ha abituati a opener travolgenti che si intitolano Jokerman, Like A Rolling Stone, Hurricane, Blowin’ In The Wind, Lovesick, Rainy Day Women #12 & 35, Gotta Serve Somebody, Subterranean Homesick Blues, Tangled Up In Blue, Political World, Changing Of The Guards. Insomma, straniante – vedi anche i lievi timbri di lira (o qualcosa che tale sembra – forse un dulcimer?) che lo punteggiano.
Per non parlare dei pezzi a 12 battute incastonati qui e là nell’ascolto. My Own Version Of You, musicalmente il meno prevedibile con quel passo dubbioso mentre si parla di Al Pacino e Marlon Brando, di Leon Russell e Liberace. Goodbye Jimmy Reed, niente di nuovo sotto il sole ma degnissima ode a uno dei grandi del blues elettrico, adorato da molti suoi peer quali Neil Young, Van Morrison, Elvis Presley, Grateful Dead, Eric Clapton e Rolling Stones. Crossing The Rubicon, che nei propri 7 minuti abbondanti tira in ballo Giulio Cesare e (Romagna mia!) la classica figura retorica di Passare il Rubicone (e di decisioni importanti, definitive e irrevocabili Bob Dylan nei decenni ne ha prese molte, salvo poi ripensarci…). E False Prophet, copia carbone di If Lovin’ Is Believing di Billy “The Kid” Emerson, dimenticato eroe blues/errebì epoca Sun Records classe 1925 che miracolosamente è ancora fra noi e verso cui, immaginiamo, Dylan conservi ammirazione fin da quando da ragazzino nel Big Iron egli passava le notti con l’orecchio appiccicato alla radio (il pezzo di Emerson è del 1954); o con il quale abbia persino qualche arcano vincolo, cosa che non sorprenderebbe, visti gli stretti legami d’amicizia intrattenuti da Mister Zimmerman con altri nomi di casa Sun quali Johnny Cash, Billy Lee Riley, Carl Perkins, Roy Orbison e Roland Janes.
Quello che tutti cercano, o almeno immaginiamo sia così, quando l’ex ragazzo del Minnesota si muove con un nuovo album, sono le canzoni, diamanti spesso grezzi che prendono vita e sono destinati al cosiddetto long run, a durare. Qui, di primo acchito, ne contiamo diverse. La prima, quella di cui tutti parlano è Key West (Philosopher Pirate), dove sono citati Allen Ginsberg, Gregory Corso e Jack Kerouac nonché, supponiamo affilando l’orecchio, Louis Armstrong, Jimi Hendrix e Buddy Guy (chiamati come “Louie The King, Jimi and Buddy“): quasi 10 minuti di chiara Invisible Republic ma pure di Mystery Train, come direbbe il noto giornalista musicale Greil Marcus, che se non fossimo nel 2020 e non sapessimo che faccia parte di Rough And Rowdy Ways, potremmo scambiare per qualcosa che corre dalle parti di Bob Dylan & The Band, fra i Basement Tapes (1966-67) e Planet Waves (1974), con quella fisarmonica inesorabile che puntella tutto come se Garth Hudson fosse di nuovo della partita – sebbene con l’originalità e i tempi dilatati del Bob Dylan odierno. I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You: ignari dei crediti come siamo, sembra che sia proprio qui che facciano capolino Fiona Apple e Blake Mills, gli ospiti del lavoro annunciati nelle ultime ore, che imprimono al brano un umore sospeso e quasi inviolabile (non solo Apple e Mills fanno inatteso capolino: pure Benmont Tench, l’ex tastierista di Tom Petty & The Heartbreakers, e tale Tommy Rhodes, sono della partita qui e là lungo l’album).
Bob Dylan con Fiona Apple ai Grammy Awards 1998
Il folk, molto lontano da quello con il fuoco dentro degli anni giovanili e nemmeno quello primitivista rivisitato negli anni 90 in Good As I Been To You (1992) e World Gone Wrong (1993) – potremmo dire, per contro, qui è affrontato quasi in maniera aulica. Vedi Black Rider, con una chitarra flamenco morbida che ci piace leggere come omaggio a Leonard Cohen, cantautore-poeta amico, contender e metro di paragone per molti decenni («La mia musica è un’infinita variazione delle poche note di flamenco che quand’ero ragazzo riuscii a imparare a Montreal da un musicista di strada», ebbe a dire il compianto Len). Oppure Mother Of Muses, poesia solenne che parla di sentieri abitati da Elvis Presley e da Martin Luther King, che ha nella declamazione-scià vecchi ispiratori del Bob Dylan giovane, talismani rimasti con lui in tutti questi decenni, quali Paul Clayton e i Clancy Brothers, Cisco Houston e la Carter Family, rimontati con consapevolezza odierna. E qui ci fermiamo: come tutte le opere d’arte scoperte al pubblico, Rough And Rowdy Ways si svela oggi per prendere il largo e andare per mari chissà dove. Già, perché come un altro Bob Dylan cantò in Oh, Sister diversi decenni or sono, “…time is an ocean” – il tempo è un oceano.